Il mondo moderno sembra essere ossessionato dalla gioventù. Oggi tutti amano i giovani e ancora di più in vista delle elezioni tutti si sbracciano a proclamarsi favorevoli ai giovani, all’ascolto dei giovani, aperti ai giovani, anzi perfino loro giovani e certo avvezzi a navigare su internet, a chattare e postare e a scaricare roba senza pagare. Ormai è così che si valuta l’adeguatezza di un individuo alla modernità, a misura di poke e like, di tag e twit. Il mondo giovanile è diventato un riferimento culturale, un fenomeno da decifrare, i giovani sono alla ribalta, tutti si precipitano su Facebook per capirli, per adeguarsi al loro modo di relazionarsi e comunicare, i giovani vengono intervistati nei talk-show e così veniamo a sapere che il loro ideale è avere molte ragazzine e molti soldi e allora tutta la società esulta e dice: ecco, i giovani hanno parlato, ora bisogna ascoltarli! In questo delirio collettivo nessuno si rende conto che i giovani dovrebbero essere lasciati al loro posto e che noi adulti dovremmo recuperare il nostro, di educatori e censori, di punti di riferimento e limiti.
Anche qui si mescolano troppe cose e si considera una discriminazione al pari di quelle sessuali o razziali il fatto di ricordare a un ragazzino che deve solo darci retta, semplicemente perché è immaturo, acerbo, inesperto e ignorante. Nulla di grave, solo la sua naturale condizione di giovane, che si cura benissimo e da cui si guarisce quasi sempre. Con il rispetto dell’adulto, lo studio e l’esperienza. Faremmo un favore ai nostri figli se li trattassimo da figli e non da amici, se esigessimo da loro rispetto e non offrissimo loro cameratesca fratellanza. Per insegnare ci vuole distanza, non vicinanza, perché da chi impariamo dobbiamo poi poterci allontanare. Il maestro va trafitto, non perché è stato cattivo ma perché è il passato e ogni giovane ha diritto invece al suo futuro. Con il nostro asfissiante abbraccio noi rinchiudiamo i giovani nel nostro presente. In fondo sapere quale posto occupare è tutto qui: distinguere il proprio tempo da quello altrui. Invece, nella nuova mania giovanilista vogliamo essere anche noi eternamente giovani e così usurpiamo un futuro che non ci compete. Allora proclamiamo che il giovane ha sempre ragione e siamo noi colpevoli perché non sappiamo ascoltarlo. Ma cosa può avere da dirci un sedicenne? Quanti foruncoli è riuscito a respingere a furia di Clerasil? Al richiamo di quante manfrine ha resistito malgrado Youporn? Cerchiamo di ricordare la nostra gioventù: i nostri padri forse ci seguivano nelle nostre scorribande con il cinquantino truccato o venivano all’oratorio a giocare a pallone o in discoteca a farci concorrenza con le sbarbe? Venivano ai concerti di Frank Zappa e di Patty Smith o si sedevano con noi nel cerchio dello spinello?
Mio padre mi diceva che avrei potuto fare quello che volevo, non gli interessava neppure sapere cosa, a patto però che prima studiassi il greco ed il latino, la filosofia, la letteratura e una lingua straniera. Sulle pagine di una grammatica avrei trovato la misura per ogni cosa, dalla prima sigaretta al primo amore. Studiare non era sindacabile perché a quell’età potevo fare solo quello, studiare e ascoltare: da dire non avevo niente. Avevo bisogno di cultura, quella vera, quella alta. Perché dall’alto si può scendere, dal basso no. I miei dischi di Guccini, i miei fumetti di Corto Maltese, il mio cineforum dell’ARCI non erano cultura, erano solo il mio tempo: sarebbe passato. Ariosto e Eschilo, Machiavelli e Nietzsche no. Mio padre se doveva parlarmi mi riceveva nel suo studio e mi diceva lui quando potevo alzarmi. Non era severità, era reciproco rispetto dei ruoli. Anche mio nonno, che era solo un contadino, sapeva che non si deve dare confidenza ai giovani. Quando gli chiesi di insegnarmi a coltivare l’orto, mi lasciò per tutta un’estate a guardarlo. La primavera dopo mi porse la zappa e mi disse che potevo cominciare anche io. Osservare e ascoltare era la sua scuola. Oggi noi facciamo il contrario: scimmiottiamo quelli a cui dovremmo invece offrire un modello.
Non rendiamo un buon servizio ai giovani mimetizzandoci fra loro. La nostra è viltà, non spregiudicatezza. L’adulto autentico sa stare nel suo tempo e invecchiare con lui, sa accettare il suo limite, sa vedere attraverso la lente dell’esperienza quello che durerà e quello che finirà, quello che è da tramandare e quello che è da dimenticare. Scriveva Nietzsche: «Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, perché essi sono una transizione. » L’uomo maturo dovrebbe fare proprio questo : saper tramontare. Perché solo con il suo tramonto i giovani potranno sorgere davvero. Gli adulti di oggi invece sono tutti qui, intramontabili, a ingombrare l’orizzonte: pianeti morti che si credono un sole di mezzanotte.
Diego Marani