L’immagine è di quelle destinate a restare nei libri di storia; di certo, colpisce l’immaginazione. All’apparenza, nulla di più banale: dov’è la notizia nel vedere due leaders mondiali che si stringono la mano, o che levano i calici ad una cena di lavoro? Si potrebbe dire: una foto (opportunity), e nulla più. Eppure, già tra le pieghe della foto medesima è possibile cogliere una valenza che va al di là della routine. Nell’espressione tirata e quasi sussiegosa dell’americano, che non ha mai fatto mistero della sua predilezione per altri partners né della sua specifica antipatia per quello di turno, e probabilmente indotto ad una posa di studiato fastidio per rimarcare la natura occasionale dell’incontro. Nello sguardo penetrante e affilato del russo, che sembra avere l’aria insidiosa e compiaciuta della faina intrufolatasi nottetempo in un pollaio.
Per una volta, apparenze e linguaggio dei corpi vanno a braccetto con la realtà. È difficile negare che l’incontro al Palazzo di Vetro di New York, ai margini dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, segni un successo di tappa per Putin. Per averne una riprova, basta riandare con la memoria ad un anno addietro, e ripensare al discorso – come al solito convincente e trascinante – pronunciato da Barack Obama nello stesso contesto UNGA. A quel tempo, Obama aveva individuato nell’improbabile trio virus Ebola, ISIS e Russia le minacce emergenti alla sicurezza internazionale. Si era trattato allora di uno schiaffo evidente all’indirizzo di Mosca e alla sua ambizione mai sopita a vedersi riconosciuto uno status di interlocutore da trattare sul serio, relegata così nel girone degl’intoccabili alla stessa stregua di una pandemia e di una congrega di estremisti autoproclamatisi Stato. Un anno dopo, il virus sembra essere almeno momentaneamente sotto controllo – i terroristi del sedicente Stato Islamico lo sono meno, e certamente ben lontani dall’essere ‘degraded and destroyed’, come lo stesso Obama aveva promesso. E la Russia, nel frattempo, è ridivenuta un interlocutore degli USA: scomoda, ma inevitabile; e in alcuni casi forse indispensabile.
Non si tratta di parteggiare per l’uno piuttosto che per l’altro o, peggio, di simpatizzare per un Presidente, quello russo, che non solo non fa molto per suscitare sentimenti di simpatia nelle opinioni pubbliche occidentali, ma al contrario ci mette molto del suo per alimentare la fama di uomo nero che nella percezione collettiva a ovest del Volga gli si è appiccicata addosso come la carta moschicida.
Non c’è motivo di dubitare, peraltro, che un ordine internazionale equo, fondato sulla forza del diritto (anziché sul diritto del più forte), all’ombra della protezione benevola (e non del tutto disinteressata) del gendarme americano sia la garanzia più efficace di stabilità, sicurezza e prosperità su scale mondiale (nonché europea). E tuttavia la preservazione di un ordine di questo tipo, aperto e sofisticato, in un contesto contrassegnato da rivalità, tensioni e sfide più o meno aperte, presuppone una certa misura d’intelligenza, flessibilità e capacità di adattamento.
L’intelligenza di capire che possono esserci punti di vista, o visioni della coesistenza internazionale, divergenti; punti di vista più o meno palatabili o condivisibili, ma dal punto di vista di relazioni internazionali fondate sull’eguaglianza sovrana dei partecipanti, tutti egualmente legittimi. La flessibilità nel reagire a divergenze, minacce e nella peggiore delle ipotesi aggressioni in maniera proporzionata, risoluta e al tempo stesso razionale. La capacità di adattamento nel combinare la doverosa fermezza dinanzi ad atteggiamenti inaccettabili con l’altrettanto ineludibile apertura alla collaborazione su questioni d’interesse comune.
Principi ovvi per quanto sono elementari; ma che negli ultimi anni (o forse decenni) erano caduti nel dimenticatoio, sospinti da una deriva della politica estera occidentale (ed europea) all’insegna della confusione: in cui gl’imperativi morali si sono confusi con le prediche moralistiche; le condanne con le scomuniche; e lo stesso dialogo da irrinunciabile punto di partenza per ricercare la non facile composizione di interessi e obiettivi diversi se non in conflitto si era tramutato in ricompensa non richiesta di ancor più improbabili andate a Canossa del reprobo di turno.
Probabilmente l’incontro di New York segna la presa d’atto che un certo modo di fare politica estera si è rivelato velleitario nella forma e fallimentare nella sostanza. Nelle relazioni internazionali, non solo non si dispone del lusso di scegliersi gl’interlocutori; alle volte, trattare con quelli meno graditi e gradevoli, oltre ad essere necessario, è più fruttuoso che dialogare con coloro che ti danno ragione a priori (con questi ultimi, a ben vedere, parlare non è neppure necessario). Non meno ingannevole e fallace, poi, è la logica che ha condotto a cercare di escludere dal novero delle controparti accettabili coloro che di volta in volta sono stati additati come ‘parte del problema’. Che piaccia o no, per individuare le soluzioni possibili occorre partire dai problemi; peraltro sono proprio i problemi a contenere – almeno ‘in nuce’ – il principio della loro soluzione (e viceversa: le soluzioni racchiudono in sé il germe dei problemi successivi); e di sicuro rimuovere i problemi non equivale a risolverli, né tantomeno aiuta.
Non è detto, ma la stretta di mano di mano di New York potrebbe rivelarsi davvero storica. Non tanto per aver segnato una svolta determinante nella crisi ucraina o siriana – entrambe, ahinoi, ancora lontane da una soluzione definitiva; ma se e in quanto avrà segnato un passo verso una politica estera occidentale più intelligente e consapevole dei propri limiti. Un risultato tutt’altro che scontato, ma tutt’altro che di poco conto, se si realizzasse.