Fu forse quarant’anni fa che alla Festa nazionale dell’Unita’ esploravo curioso gli stand degli allora paesi del comunismo reale per cercare di capirli. Con il mio sconnesso francese interpellavo ungheresi, rumeni e cecoslovacchi che mi rispondevano enigmatici e sospettosi preferendo mettere avanti opuscoli sull’ennesimo piano quinquennale piuttosto che ingaggiare una conversazione con me. Allora come oggi di loro non abbiamo capito niente. Se da questi piccoli popoli viene una così rivoltante opposizione all’accoglienza dei migranti che arrivano disperati alle loro frontiere è perché questi paesi non hanno mai risolto gli stessi problemi che li hanno fatti esistere. La loro angoscia identitaria è quella che ha sgretolato gli imperi di cui facevano parte e che oggi ostacola la crescita di un’Europa multiculturale. L’ondata di migranti siriani è da loro percepita come una minaccia alla singolarità culturale per la quale hanno tanto combattuto e pagato un carissimo prezzo alla storia. Indignarsi per la bestialità delle loro posizioni, tacciarli di razzismo e accusarli di perpetrare oggi su altri le atrocità che loro stessi hanno subito serve a poco. In questo modo attizzeremmo ancora di più il loro sospetto e la loro paura. La strada è un’altra e ancora una volta avremmo dovuto imboccarla prima. Bisogna spiegare a questi popoli esasperati dall’incubo della perdita identitaria che l’identità è un processo, non un’eredità da trasferire intatta alle nuove generazioni. Nessun essere umano ha mai perso la propria identità. Ma nessun essere umano rimane da vecchio quel che era da giovane. Vivendo imbarchiamo diversità e ci trasformiamo, senza però mai smarrire l’essenza di quel che siamo. Così fanno anche i popoli, smarrendo nel tempo la memoria di quel che erano, ma mai la consapevolezza di quel che sono in ogni preciso momento della loro storia. Molta dell’angustia mentale che affligge questi ma anche altri popoli viene dal fatto che sono sempre rimasti chiusi a casa loro, che non hanno mai sperimentato la vitalità che viene dal contatto con la diversità. Anche a molti italiani questo esercizio farebbe un gran bene. Paradossalmente è proprio con l’apertura delle frontiere che oggi si rimette in discussione che questi come altri pregiudizi avrebbero potuto essere spazzati via. Dalla frequentazione, dalla conoscenza, dallo scambio, dall’arricchimento reciproco.Oggi ci accorgiamo che l’allargamento dell’UE del 2004 era prematuro. Che più delle inadeguatezze economiche, giuridiche e finanziarie sugli antichi paesi dell’Est pesava un’inadeguatezza culturale e politica ancora irrisolta. Ora solo il tempo potrà sciogliere la loro paura. Solo il cambiamento che quest’ondata di emigrazione sta portando in Europa lentamente trasformerà le identità esclusive e irredentistiche di anguste nazioni sorpassate dalla storia. Perché le migliaia di siriani che oggi arrivano in Germania non potranno non dilagare prima o poi nelle riserve indiane in cui cechi, ungheresi e baltici si sono rinchiusi. Un mio collega che ha vissuto a lungo negli USA mi racconta che quando vi arrivò si accaniva a giustificare il suo spaesamento e il suo scarno inglese spiegando che lui non era americano. “Si’ ma lo diventerai!” gli rispondevano rinfrancandolo i suoi colleghi. L’Europa sarà veramente unita quando a un profugo che arriva alle nostre frontiere saremo capaci di dire la stessa cosa.
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