Bruxelles – In Italia il permesso di soggiorno è troppo caro: un contributo tra gli 80 e i 200 euro per il rilascio o il rinnovo del documento è “sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva” europea in materia e “può creare un ostacolo all’esercizio dei diritti che essa conferisce”. A stabilirlo è una sentenza della Corte di giustizia europea, che si è trovata a giudicare sulla questione su richiesta del Tar del Lazio, a sua volta chiamato in causa dalla Cgil e dall’Inca, (Istituto Nazionale Confederale Assistenza). Le due associazioni si erano rivolte al tribunale amministrativo chiedendo l’annullamento del decreto del 2011 che precisa gli importi da pagare per il permesso di soggiorno: 80 per il rilascio e il rinnovo di quelli fino a un anno, 100 per quelli inferiori a due anni e 200 per quelli di lungo periodo. Motivo della richiesta la “natura sproporzionata del contributo” soprattutto a fronte del fatto che il costo per il rilascio di una carta d’identità in Italia è di 10 euro: ai cittadini di Paesi terzi viene dunque imposto un costo almeno “otto volte più elevato”.
Rilievi che la Corte di Giustizia europea mostra di condividere, rifacendosi anche ad una sentenza del 2012 nei confronti dei Paesi Bassi. Anche in quel caso si era sottolineato che la direttiva europea viene rispettata soltanto se “gli importi dei contributi richiesti non si attestano su cifre macroscopicamente elevate e quindi sproporzionate rispetto all’importo dovuto dai cittadini di quel medesimo Stato per ottenere un titolo analogo”, come appunto la carta d’identità nazionale. La Corte, pur riconoscendo che “gli Stati membri possono subordinare il rilascio al pagamento di contributi” e che “dispongono di un margine discrezionale” nel fissare questi contributi, ricorda anche che l’obiettivo principale della direttiva europea “è l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri”. Dunque l’entità dell’importo “non può compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva e deve rispettare il principio di proporzionalità”.
I contributi, sottolinea il tribunale di Lussemburgo, “non devono creare un ostacolo al conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo”. Cosa che quelli imposti dall’Italia sembrano invece fare, soprattutto visto che “in considerazione della durata dei permessi e il loro rinnovo deve essere pagato assai di frequente”. La Corte sottolinea, inoltre, che la metà del gettito prodotto dalla riscossione del contributo è destinata a finanziare le spese connesse al rimpatrio dei cittadini dei Paesi terzi in posizione irregolare. Essa respinge quindi l’argomento del governo italiano secondo cui il contributo è connesso all’attività istruttoria necessaria alla verifica del possesso dei requisiti previsti per l’acquisizione del titolo di soggiorno.