Più o meno di questi tempi, un anno fa, molti si esercitavano alla ricerca di parallelismi con il mondo di un secolo prima, quando il 28 luglio scoppiava la prima guerra mondiale. Un anno dopo sta andando di moda la ricerca di analogie con le guerre valutarie degli anni 30, svalutazioni competitive delle monete nazionali fatte nel tentativo di far ripartire le economie colpite dalla grande depressione, iniziata in America ma destinata (come la crisi aperta dal fallimento di Lehman Brothers) a deflagrare in Europa. Tra poco più di un mese cade l’anniversario dell’abbandono del gold standard, vale a dire la convertibilità in oro, da parte della Gran Bretagna, deciso il 21 settembre del 1931. Due mesi prima la Germania, uscita dall’iperinflazione esplosa dieci anni prima, aveva introdotto rigidi controlli sui movimenti di capitale per proteggere il nuovo marco, ancorato all’oro. La sterlina soffrì di una svalutazione immediata del 25%. Allora era la moneta mondiale di scambio, come oggi il dollaro. Svalutare vuol dire abbassare il prezzo sul mercato dei beni e dei servizi prodotti da una nazione rendendoli più competitivi sui mercati esteri, quindi creare occupazione in casa ed esportare disoccupazione fuori casa. La Gran Bretagna era la prima potenza economica globale e l’effetto domino fu micidiale, facendo scattare in tutto il mondo altre svalutazioni competitive. Per molti fu benzina sul fuoco del nazionalismo tedesco e giapponese che andò ad alimentare il grande falò della seconda guerra mondiale. Siamo oggi, come qualche titolo suggerisce, in una situazione simile?
L’idea che il mondo si stia pericolosamente avvicinando a una guerra valutaria dalle conseguenze molto pericolose non nasce oggi dalla svalutazione del renminbi decisa nei giorni scorsi dalla Cina. Se ne parla da 5 anni. Il primo allarme lo ha infatti lanciato il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega nel settembre del 2010. Per il genovese Mantega ad aprire le ostilità era stata l’America un mese prima, con la fase due del quantitative easing annunciata ad agosto dall’allora capo della Federal Reserve Ben Bernanke, che secondo l’italo-brasiliano equivaleva a una svalutazione competitiva. In effetti la manovra della Fed fece scendere il cambio del dollaro contro euro da poco sopra 1,22 a sfiorare 1,50 un anno dopo. Analogo il movimento rispetto allo yen, che si apprezzò da poco sotto 90 per dollaro fino a toccare quota 76. Forse una guerra valutaria c’è stata, con gli Usa nella parte della Gran Bretagna e Giappone e Europa in quella di Stati Uniti e Francia ottant’anni prima. Ma è durata poco più di un anno con conseguenze pesanti per l’Europa (crisi del debito) senza però esitare in una catastrofe mondiale. Da allora la moneta leader è tornata gradualmente a fare il leader. Per comprare un dollaro oggi servono poco meno di un euro e circa 125 yen. Ora la Cina minaccia di farne scoppiare un’altra?
La Cina è una grande economia ma è ancora un nano della finanza. Come moneta internazionale di scambio il renminbi pesa meno del kiwi neozelandese. I cinesi sono giocatori pesanti al tavolo verde dei mercati finanziari mondiali, con i loro trilioni di riserve, le grandi corporation e i miliardari che investono in tutto il mondo. Ma la marcia da fare per acquisire lo status di piazza finanziaria in grado di influenzare il mercato delle valute è ancora molto lunga.
E poi quella del renminbi non è stata una svalutazione. È stato un passo verso la piena convertibilità, che vuol dire lasciare che sia il mercato a stabilire il prezzo. La moneta cinese è legata al dollaro, le autorità di Pechino hanno solo allentato le briglie per far allineare un po’ il valore a quello delle altre grandi monete, come euro e yen, che sul dollaro si sono svalutate di oltre il 20 per cento. Se la moneta egemone si rafforza, parlare di guerre valutarie è fuori luogo. Con il dollaro forte l’America non esporta disoccupazione, casomai esporta posti di lavoro, a beneficio di Europa, Giappone, e ora un po’ anche Cina.