di Ashoka Mody, professore di economia internazionale all’università di Princeton ed ex vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale.
Il braccio di ferro tra la Grecia ed i suoi creditori a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi ci ha rammentato, ancora una volta, quanto pessima sia stata l’idea di creare un’unione monetaria che comprendesse economie così diverse tra loro. Detto questo, sarebbe meglio per tutti se il primo paese ad uscire fosse la Germania – non la Grecia.
Dopo mesi di negoziati estenuanti, recriminazioni e colpi di scena, è difficile individuare un vincitore. L’accordo raggiunto dalla Grecia con i creditori – sempre che duri – propone esattamente la stessa fallimentare strategia economica perseguita finora. Da un lato, i greci saranno costretti a seguire la stessa brutale cura dimagrante che hanno esplicitamente rigettato alle urne; dall’altro, i creditori finiranno probabilmente col perdere ancora più soldi di quelli che avrebbero perso con una dose minore di austerità e un taglio immediato del debito.
Detto questo, il creditore principale, la Germania, ha fatto un favore all’Europa: suggerendo alla Grecia di abbandonare l’euro, ha infranto un tabù politico. Per decenni, i politici hanno sbandierato l’euro come un simbolo dell’unità europea, nonostante i suoi evidenti difetti economici, già evidenziati dall’economista Nicholas Kaldor nel 1971. Questo è cambiato l’11 luglio del 2015, quando i ministri delle Finanze dell’eurozona sono giunti alla conclusioni che in certi casi l’uscita di un paese dall’euro può essere la scelta migliore. «Nel caso in cui non si raggiungesse un accordo», hanno dichiarato, «andrebbe rapidamente negoziato un time-out dalla zona euro per Grecia».
Adesso che il Grexit è stato sdoganato, possiamo approfittarne per guardare al di là dello scenario politico attuale e riflettere sulla direzione migliore in cui muoverci. Se la Grecia dovesse uscire – seguita a ruota, come è probabile, dal Portogallo e dall’Italia – le nuove valute di quei paesi si svaluterebbero notevolmente. Di conseguenza, questi paesi si ritroverebbero impossibilitati a ripagare i loro debiti in euro, dando il via a valanga di default. Anche se la svalutazione della nuova moneta renderebbe più competitive le economie in questione più competitive, le conseguenze economiche sarebbero molto pesanti e si farebbero sentire ben al di là dei confini di quei paesi. Al contrario, se fosse la Germania a lasciare l’eurozona – come hanno suggerito personaggi influenti come il fondatore di Citadel Kenneth Griffin, l’economista dell’università di Chicago Anil Kashyap e l’investitore George Soros – non ci sarebbero perdenti ma solo vincitori.
Se la Germania tornasse al marco, il valore dell’euro scenderebbe immediatamente, migliorando la competitività dei paesi della periferia. L’Italia e il Portogallo hanno oggi più o meno lo stesso prodotto interno lordo di quando è stato introdotto l’euro, mentre la Grecia, dopo una breve impennata, rischia ora di scendere al di sotto dei livelli pre-euro. Per questi paesi, un euro più debole sarebbe un formidabile stimolo alla crescita. Se, come è probabile, l’Olanda, il Belgio, l’Austria e la Finlandia seguissero l’esempio della Germania, l’euro si deprezzerebbe ancora di più.
Le ricadute negative di un’uscita della Germania dall’euro sarebbero limitate. Poiché un marco rivalutato permetterebbe ai tedeschi di acquistare più beni e servizi in Europa (e nel resto del mondo) di quello che possono acquistare attualmente con l’euro, i tedeschi diventerebbe istantaneamente più ricchi. Gli asset tedeschi all’estero perderebbero di valore, è vero, ma i debiti della Germania diventerebbero molto più facili da ripagare.
Alcuni tedeschi temono che un marco rivalutato renderebbe le esportazioni tedesche meno competitive all’estero. È vero, ma questo sarebbe un bene per il mondo – e anche per la Germania stessa. Sono anni che la Germania registra un enorme avanzo delle partite correnti, il che, in soldoni, vuol dire che vende molti più beni/servizi di quanti non ne acquisti dall’estero. Con l’arrivo della crisi, il surplus della Germania è addirittura aumentato, raggiungendo nel 2014 un nuovo record di 215,3 miliardi di euro. La carenza di domanda interna della Germania rappresenta un freno per la crescita mondiale; questo è il motivo per cui sia il Dipartimento del Tesoro statunitense che il Fondo monetario internazionale, tra gli altri, insistono da tempo affinché il paese incrementi la domanda interna. Anche la Commissione europea ha concluso che lo squilibrio delle partite corrente della Germania è «eccessivo».
La Germania sa come vivere con un tasso di cambio più forte. Prima dell’introduzione dell’euro, il marco si apprezzava di continuo. Le imprese tedesche si adattavano creando prodotti di maggiore qualità. Un ritorno al marco, oggi, darebbe a quelle imprese uno stimolo a migliorare la produttività, latente da tempo, dei servizi che producono per se stessi.
Probabilmente il beneficio maggiore, però, sarebbe politico. La Germania è fiera del ruolo egemonico che ricopre oggi in Europa, ma ha dimostrato di non essere disposta a farsi carico dei costi. Interpretando il ruolo del bullo moralizzatore, sta recando un disservizio all’Europa: invece di contribuire ad un’«unione sempre più stretta» tra i popoli europei, sta danneggiando irreparabilmente il tessuto politico del continente. Per rimanere uniti, forse è arrivato il momento per le nazioni europee di allentare i vincoli che le uniscono.
Articolo pubblicato su Bloomberg il 17 luglio 2015.