Bruxelles – Mentre il governo italiano si riunisce per varare un decreto che scavalchi la sentenza del Tribunale di Roma e salvi il ‘modello Albania’, Bruxelles fa un passo verso Roma e uno di lato: “Dobbiamo lavorare su una lista comune di Paesi terzi sicuri, è previsto“, fanno sapere i portavoce della Commissione europea. Per poi ribadire quanto già dichiarato dalla commissaria Ue per gli Affari interni, Ylva Johansson: “Le misure adottate dalle autorità italiane devono essere pienamente conformi al diritto e ai trattati Ue e non devono in alcun modo minarne l’applicazione”.
È proprio il concetto di Paese sicuro ad aver fatto saltare il controverso piano di Meloni di dirottare i richiedenti asilo in Albania. In Europa non esiste una lista comune di Paesi di origine considerati sicuri – ci aveva provato senza successo l’esecutivo guidato da Jean-Claude Juncker nel 2015 -, ma esistono dei paletti entro i quali gli Stati membri hanno facoltà di stilare i propri elenchi.
Secondo la direttiva 2013/32, “un Paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Sulla base di quella direttiva, il 4 ottobre scorso la Corte di giustizia europea ha indicato in una sentenza che un Paese terzo, per essere definito sicuro, deve esserlo in ogni sua parte e senza eccezioni.
I magistrati romani su cui si sta abbattendo la furia della destra italiana hanno applicato la giurisprudenza Ue: Bangladesh ed Egitto, paesi d’origine delle 12 persone migranti sballottate tra l’Italia e l’Albania, sono stati aggiunti all’elenco dei Paesi sicuri dal governo italiano lo scorso 7 maggio, ma lo stesso esecutivo Meloni ne aveva riconosciuto e formalizzato alcuni limiti. Limiti che però – a differenza di quanto previsto per i Paesi interamente sicuri – non consentono alle autorità italiane di dirottare le persone migranti nei centri albanesi e accelerare le procedure per l’esame delle richieste d’asilo.
Già la settimana scorsa, nella sua lettera ai capi di stato e di governo dell’Ue in vista del Consiglio europeo, Ursula von der Leyen aveva annunciato che la Commissione rivedrà “entro il prossimo anno il concetto di Paesi terzi sicuri designati”. Ma una revisione sostanziale è già prevista dal nuovo Patto per la migrazione e l’Asilo, adottato faticosamente dai 27 la scorsa primavera: nel Patto c’è un regolamento che di fatto abroga la direttiva in questione e ammette la possibilità di designare un Paese sicuro soltanto parzialmente.
Ma il Patto sarà applicato a due anni dalla sua adozione, a partire dal giugno 2026. Troppo, visto quanta credibilità politica ha messo sul piatto Giorgia Meloni scommettendo sul protocollo con l’Albania. Una bella gatta da pelare per la premier, perché fino ad allora resterà in vigore la direttiva 2013/32 e a dettare la linea sarà la sentenza della Corte di Giustizia Ue del 4 ottobre. Fino ad allora, l’Italia dovrà “conformarsi pienamente al diritto e ai trattati Ue”, senza “minarne in alcun modo l’applicazione”, ha avvertito Anitta Hipper, portavoce della Commissione europea.
Per Meloni le strade sono due. Nel brevissimo termine, rivedere unilateralmente la lista nazionali dei Paesi sicuri forzando la direttiva europea che prevede la verifica dell’effettiva sicurezza da parte delle autorità competenti e non direttamente del presidente del Consiglio. Oppure aspettare che le arrivi in soccorso Ursula von der Leyen, determinata più che mai a lasciare spazio alle “soluzioni innovative” dei governi europei per bloccare la migrazione irregolare.