Ci è voluta tutta la notte per raggiungere un compromesso, ma alla fine di un negoziato duro, durissimo, è stato raggiunto un accordo sul Terzo programma di assistenza per la Grecia. Il Guardian l’ha definita, e a ragione, una vendetta dell’Europa contro Tsipras. La discussione è andata avanti per circa 17 ore, mentre in rete montavano le proteste per la linea oltranzista contro la Grecia. L’hashtag #ThisIsACoup è diventato trend topic. Non solo, anche la stampa internazionale, persino quella tedesca, ha accusato Berlino di troppa severità e rigidità.
A contribuire al risultato finale il ruolo di mediatore svolto dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, e ben 4 trilaterali, alla presenza dello stesso Tusk, tra il premier ellenico, Alexis Tsipras, la cancelliera tedesca Angela Merkel, nel ruolo del poliziotto cattivo, e il presidente francese, Francoise Holande, che ha interpretato invece il poliziotto buono. Tsipras e il suo ministro delle Finanze, Euclid Tsakalotos, hanno dovuto sudare molto per eliminare dalla proposta, già in sé pesantissima per il Paese, i punti più difficili da digerire e ritenuti “umilianti”. Innanzitutto il paragrafo sulla Grexit provvisoria, voluto dalla Germania ma che è stato il primo ad essere eliminato dal testo finale perché in troppi lo hanno ritenuto esagerato. Ma il rischio Grexit è stato reale per tutta la notte, ed era chiaro a tutti, partecipanti al vertice e osservatori, che chi spingeva per l’uscita del Paese dalla zona euro, proponendo condizioni davvero inaccettabili, erano i Paesi del fronte oltranzista, capeggiato dalla Germania e che vedeva al suo interno anche Finlandia, Olanda, Lituania e le piccole Slovenia e Malta, che non sembravano per niente preoccupati di una eventuale uscita di Atene dalla moneta unica. In questo senso Tsipras si è mostrato, forse per reale convinzione, forse per la paura delle conseguenze di un default e di un ritorno alla dracma, ben più europeista dei suoi avversari, non facendo saltare le trattative ancora una volta.
Il punto di maggiore scontro è stato il fondo, gestito dai greci ma su cui non avranno il pieno controllo, in cui si chiede di inserire i principali asset del Paese da privatizzare per un valore complessivo di 50 miliardi, soldi che nelle intenzioni iniziali dovevano essere utilizzati esclusivamente per il pagamento del debito. La Grecia non ha accettato l’ipotesi di utilizzare un “fondo esistente e indipendente come l’Istituto per la crescita lussemburghese”, come richiesto nella bozza dell’Eurogruppo, e ha anche insistito sul fatto che, anche volendo, il Paese non ha 50 miliardi di beni da mettere in vendita. Sembra che Tsipras, con un colpo di teatro, a un certo punto si sia tolto la giacca e buttandola sul tavolo avrebbe detto: “Al massimo abbiamo beni per 17 miliardi, ma posso aggiungerci anche questa se volete”. Alla fine la cifra di 50 miliardi è stata mantenuta, ma il fondo è stato stabilito che sarà creato all’interno del Paese e non all’estero. Come si raggiungerà quella cifra ancora non è chiaro, ma le pritavizzazioni di porti e aeroporti erano già date per fatte nella vecchia propsta, cosa si aggiungerà a quelle si vedrà.
La Grecia con questo accordo cede gran parte della propria sovranità, accettando di concordare con le istituzioni (Bce, Fmi e Commissione) tutte le future riforme del Paese, nonché di attuare le riforme richieste su pensioni, Iva, mercato del lavoro e privatizzazioni in tempi strettissimi, circa 48 ore, per “riconquistare la fiducia” dei partner. In cambio ottiene la salvaguardia della legge sull’emergenza umanitaria e le tanto ambite aperture su una possibile, ma futura, ristrutturazione del debito che, se non potrà avvenire con un taglio nominale, potrebbe essere attuata con dilazioni e congelamenti delle rate. Si tratta insomma di una sconfitta per Atene ma non di una totale capitolazione, soprattutto se si guarda alla proposta uscita dall’Eurogruppo, quella sì assolutamente impossibile da firmare, e dalla cui limatura è scaturito l’accordo finale. Non bisogna poi dimenticare che anche se l’accordo è più oneroso di quello rifiutiato con il referendum, questa volta non si parla solo di un prestito da 7,4 miliardi come allora, ma di un programma di più ampio respiro, da 82/86 miliardi in 3 anni, di cui 10 dovrebbero arrivare subito, dando finalmente sollievo alle casse dello Stato per poter provare a ripartire, seppur con mille difficoltà, e non doversi solo preoccupare del rischio di chiusura delle banche.
La piccola Grecia non poteva sperare di ottenere tutte le concessioni che avrebbe voluto ma è riuscita, con un abile e determinato lavoro di mediazione e resistenza, a ottenere almeno tra le righe dell’accordo (e non è poco vista la sproporzione delle forze in campo nei negoziati) degli spiragli che le potrebbero permettere, quando le cose come si spera si metteranno meglio per l’economia, di ottenere gli spazi di manovra per alleggerire il carico che pesa sulla nazione. Ma questa è una nuova battaglia, che ancora si deve combattere.