dall’inviato a Strasburgo – Il rapporto Draghi è un ottimo contributo, una base di partenza. L’Aula del Parlamento europeo ascolta quello che l’ex primo ministro ed ex capo della Bce deve dire, nella consapevolezza che può giocare un ruolo di primo piano nella nuova legislatura che si apre. La cosiddetta ‘maggioranza Ursula’ lo accoglie con favore, lascia intendere che non va considerato come ‘la Bibbia’ del nuovo ciclo, ma Popolari (Ppe), socialisti (S&D), liberali (Re) e anche Verdi non fanno mancare apprezzamento e sostegno a quello che rappresenta la base di lavoro per i prossimi cinque anni.
Con i distinguo del caso tutti i principali gruppi apprezzano il lavoro. A parole l’Aula si dice pronta a lavorare. I socialisti insistono sulla tutela dei lavoratori, ma soprattutto a un cambio di passo. Serve più Europa, sottolinea Mohammed Chahim, perché “nessuno Stato membro può farcela da solo“, e per questo “occorre cooperare”. Anche se la sfida non è semplice, poiché “c’è un’imponente transizione da fare senza avere le risorse”, riconosce Gabrielle Bischoff, che a nome dei socialisti si dice disposta a “sostenere la necessità di investimenti” e, di conseguenza, l’invito di Draghi a trovarli anche tramite strumenti di debito comune.
Ma è qui che il dibattito d’Aula tocca probabilmente il tasto più dolente della ricetta offerta da Draghi per un nuovo corso a dodici stelle. Fonti vicine al dossier assicurano che se c’è un modo, uno solo, per affossare il rapporto sulla competitività è discutere solo di soldi, quelli che non ci sono e quelli che vanno trovati. Ed è il gioco che alcuni iniziano a fare. Jean-Paul Garraud, francese del Rassemblement National ed esponente del gruppo dei Patrioti per l’Europa, lo dice a chiare lettere: “Il rapporto Draghi richiede miliardi che non abbiamo, e spese che verranno scaricate sulle generazioni future”. Mentre Alexander Sell (Afd/Ens), chiarisce che “non vogliamo nuovo debito comune”, e che “la Germania non pagherà per il debito di altri“. Due voci ‘fuori dal coro’, perché espressione dell’opposizione, di quella destra estrema ed euroscettica a cui la presidente della Commissione europea e gli alleati hanno chiuso le porte per ogni forma di collaborazione politica.
L’opposizione meno euro-entusiasta, e non solo nei confronti di Draghi e del suo rapporto, tocca il nodo principale della vera sfida. La Germania ha tradizionalmente una posizione austera, votata al rigore dei conti, poco incline a strumenti di mutualizzazione del debito. Non lo era durante l’era Merkel, lo è stata con Olaf Scholz solo per via della crisi prodotta dalla pandemia di COVID-19, eccezionale sotto ogni punto di vista, incluso il superamento del tabù di eurobond. Un precedente a cui Berlino ha posto una clausola: nessun nuovo strumento in stile Recovery Fund finché quello in uso non dimostrerà di essere credibile e che le risorse non sono usate male.
I socialisti tuttavia insistono. “Il rapporto Draghi parla di politiche, e noi, politici, non dobbiamo avere paura“, sottolinea Nicola Zingaretti, capo delegazione del Pd a Strasburgo. A lui fa eco Bas Eickut, dei Verdi: “Draghi ci sta fornendo esempi da seguire, e soluzioni“. Da qui l’invito a rimboccarsi le maniche, che arriva dai banchi dei liberali. “Il rapporto Draghi magari non è perfetto ma possiamo sempre cambiarlo, ad ogni modo dovrebbe essere la nostra guida per il lavoro che dovremo fare“, sottolinea Joao Cotrim de Figueriedo (Re).
E’ qui che si registra la saldatura di socialisti-liberali-verdi con i popolari. “Il rapporto Draghi sarà una base per il lavoro dei nostri prossimi cinque anni“, conferma il capogruppo del Ppe, Manfred Weber. Anche lui chiede coraggio perché, avverte, “non c’è futuro senza cambiamento”. Weber sposta però l’attenzione del dibattito oltre il Parlamento, calandolo nell’istituzione rappresentativa degli Stati. “Bisogna scuotere il Consiglio” dell’Ue, e ha ragione, perché è soprattutto qui che si deciderà l’intera partita. Un concetto ripetuto anche da Markus Ferber, anch’egli popolare: “Il rapporto di Draghi identifica la situazione in cui siamo, ma non abbiamo problemi a capire dove ci troviamo. Abbiamo problemi nell’attuare le soluzioni. Ma non qui, in Consiglio”.
Il nodo politico è di scelte, e nel Ppe le scelte passano per un cambio di regolamentazione. Si invocano semplificazione, misure e quadri giuridici a misure di imprese. Un cambio di paradigma che potrebbe voler dire, a seconda di come si deciderà di declinarlo, una revisione delle regole del Green Deal. Si intravede, nel rapporto Draghi, lo spiraglio e l’opportunità per rimodulare quelle normative verdi e innovative in chiave di una competitività a misura di imprese. Una visione che corrisponde a quella dei conservatori. “Vogliamo crescita, riduzione degli oneri per le imprese e meno burocrazia”, scandisce Nicola Procaccini, co-presidente del gruppo Ecr e capo delegazione di Fratelli d’Italia.
Parole, quelle di Procaccini, che mostrano un avvicinamento Ppe-Ecr che non farà piacere a socialisti, liberali e verdi, che per il sostegno alla nuova Commissione von der Leyen hanno posto come condizione di non lavorare con la destra estrema in Parlamento. Il rapporto Draghi c’è e gode per ora di un sostegno, anche ampio. Ma è comunque rimesso alla prova dei fatti.