Il fiorire, in Italia, di formazioni (o “movimenti”) capaci di raccogliere anche un terzo dei consensi elettorali sembrerebbe, in apparenza, fare del Bel Paese una sorta di laboratorio sperimentale della politica. Dalla caduta dei partiti “tradizionali”, ovvero dalle elezioni del ’94 che videro premiata la discesa in campo di Berlusconi con – appunto – oltre un terzo dei consensi, di volta in volta c’è sempre stato un exploit del genere: dopo le liste berlusconiane, ricordiamo il PD renziano al 40% (“ma anche” quello veltroniano ben oltre il 30), il terzo dei voti al M5S poi passato (saldamente?) in mano a Giorgia Meloni e, anche quando il turno elettorale era lontano, qualcuno ha raggiunto nei sondaggi le stesse percentuali (ricordiamo la Lega di Salvini sino alla crisi del Governo Conte I).
È veramente, l’Italia, il laboratorio politico d’Europa? Veramente, da noi, si generano le formule e le strategie che disegneranno le forme del potere nell’immediato futuro? Oppure si tratta di tutt’altro?
Una prima osservazione si propone proprio su questo “terzo” dei votanti, straordinariamente simile alle percentuali che, a cavallo tra i ’70 e gli ’80, marcavano l’ascesa del Partito Comunista di Berlinguer verso il podio di primo partito italiano, sorpasso poi avvenuto, seppure di stretta misura (0,4%, ovvero 130.000 voti su 37 milioni di votanti), nelle europee del 1984: sorpasso che non solo il povero Enrico non vide ma forse, con la sua tragica morte, probabilmente ed eccezionalmente favorì. Possiamo immaginare che, negli anni ’80, vi fosse un italiano su tre che auspicasse l’avvento del comunismo reale in Italia? Certo che no. Al di là di uno zoccolo duro militante, una buona parte di quei quasi dodici milioni di voti “comunisti” erano un segnale contro la DC. Contro quarant’anni di ininterrotto governo democristiano: e qui si deve smontare una delle più comuni fake news spesso ribadita, nei social, da coloro che hanno in uggia la sinistra: in Italia non ha governato per decenni la sinistra, ma la Democrazia Cristiana. Dispiace, ma è così.
Dopo l’89 (crollo del Muro di Berlino) e con il rapido dissolvimento del regime sovietico, viene meno il rischio che i cosacchi possano abbeverare i cavalli nelle fontane di Piazza San Pietro (in una trasmissione televisiva sul tema, persino monsignor Tonini – poi cardinale nel ’94 – arriva a dare di Carlo Marx, seppure in “ultima analisi”, una visione emancipatrice delle classi più povere altrimenti costrette nella miseria) e per quel PCI, o quello che il PCI diventerà dopo Occhetto e la “Bolognina”, si apre lo scenario di governo. Da quel momento si apre la falla che provocherà lo svuotamento, più o meno graduale, del partito, quale che ne fosse la sigla (PCI, PDS, DS, PD). Che cosa è accaduto?
È accaduto che quella vasta quota di elettorato sta evidenziando la sua caratteristica, che si evolverà negli anni a seguire: quella di essere un vero e “proprio partito dei contrari”, composto da persone che vorrebbero dal governo una coniugazione impossibile: quella dell’assistenzialismo democristiano affiancato dalla pulizia e qualità dei conti pubblici; vorrebbero poter ricorrere alla raccomandazione per se stessi ma imporre al primario che li opererà concorsi altamente selettivi; vorrebbero parcheggiare in doppia fila secondo comodità ma vivere in una città senza traffico; non vorrebbero assumersi responsabilità ma le pretendono dall’impiegato che cura la loro pratica; vorrebbero sfasciare l’autovelox a mazzate ma pretendono che la polizia gliele suoni di santa ragione allo zingarello borseggiatore del metrò. Una parte di quel terzo di voti al PCI non voleva il comunismo, voleva solo l’impossibile: un sistema democristiano “individualizzato”, con tolleranza zero ma solo fuori dal mio giardino. Con la “Seconda Repubblica” (sarebbe meglio definirla una Repubblica 1.2, ovvero la versione dei portaborse della Prima) e con la già detta fine delle “due parrocchie” DC e PCI, si sfaldano anche gli zoccoli duri, cattolico e comunista non solo grazie al florilegio di partiti e partitini e all’introduzione dell’uninominale, ma anche perché si conclude definitivamente la stagione del “fare politica”. Non solo chiudono le scuole di partito, ma anche le sezioni si desertificano, cessando di essere un luogo di circolazione delle idee e di elaborazione “dal basso”.
Berlusconi sposta il confronto politico anche dalle piazze, oltre che dalle sezioni, trasferendolo in televisione e promuovendo non l’ordinato dibattito (certo, ben poco spettacolare) delle Tribune Politiche moderate da gente come Jacobelli o Zatterin, ma il confuso vociare dei talk show, fatto di sovrapposizioni, aggressioni verbali, insulti personali, invettive, giusto come previsto, già trent’anni prima, da un visionario Pasolini: poche idee, molta violenza, anche se verbale (ma pure qualche ceffone ci scappa, come nel famoso “match” D’Agostino-Sgarbi). La fine del sistema dei partiti imperniato sull’asse DC-PCI, che aveva sancito un sostanziale immobilismo dell’arco parlamentare sin dal dopoguerra, è la cartina di tornasole utile a qualificare la vera natura di quel terzo di elettorato, prima impedito a scelte di “protesta” di massa diverse dal Partito Comunista.
Da quel momento possiamo dire che non è tanto importante, in Italia, capire cosa siano state la Lega di Bossi, il Movimento Cinque Stelle di Grillo, il Movimento Cinque Stelle di Conte (non sono la stessa cosa), i Fratelli d’Italia della Meloni, il PD del primo Renzi (il rottamatore, non l’uomo di governo del Job Act), la stessa Forza Italia di Berlusconi: sono stati solo l’involucro entro il quale il vero partito del trenta percento si è, di volta in volta, calato.
Come una sorta di Alien, questa entità non risponde a una logica di semplice flusso di voti: non è una casuale combinazione di persone che cambiano idea e sposano un partito o l’atro: sono essi un partito, ma senza nome e senza programma, che ha una sola precisa finalità: opporsi a qualunque governo governi. Perché – basta osservare le parabole dei Pentastellati o della Meloni – lontani dalle responsabilità di governo è facile parlare di scatole di tonno o di blocchi navali, di Italexit o di BTP al 10% (“così gli italiani torneranno a farsi il proprio gruzzoletto”); ma, poi, una volta al governo, le cose sono ben diverse e Alien andrà a infilarsi in un altro corpo (politico).
Questo giochino era certamente più difficile negli anni ’70 e ’80: perché dovevi andare in sezione, frequentare, andare a votare (nella ricordata elezione europea dell’84 votò l’82% degli aventi diritto, nel 2024 il 56%), insomma impegnarsi; oggi ci si informa su Facebook, ingoiando anche una marea di sciocchezze senza fondamento che contribuiscono a intorbidire le acque ma, soprattutto, semplificano i concetti anche quando sarebbe necessario un minimo di approfondimento.
Quel terzo di elettorato, inoltre, è privo di memoria (forse lo era anche prima ma c’era chi le cose gliele ricordava) e non riesce a fare il confronto tra il leader di oggi e la stessa persone che, quando leader non era, faceva cose diametralmente opposte a quelle che oggi predica e sbandiera. In realtà, questa assenza di capacità critica consente ancora più facilmente all’Alien elettorale, di immedesimarsi in qualunque corpo senza provare alcun disagio. Dobbiamo andare in pensione ma ci affidiamo a chi ci sposta le finestre di uscita o abbassa le aliquote di calcolo; siamo lavoratori dipendenti ed eleggiamo il re delle partite iva; vogliamo certezza della pena e votiamo per chi depenalizza i reati; abbiamo un mutuo a tasso variabile e apprezziamo chi sostiene il ritorno alla lira… Non appena queste contraddizioni si risolveranno in materiali azioni di governo, Alien inizierà a migrare in un altro schieramento, più facilmente quello che strillerà contro quei provvedimenti.
Lo stallo e le contraddizioni della politica italiana vanno quindi ricercati non tanto nell’analisi del singolo fenomeno partitico o della singola affermazione elettorale, quanto nella natura sociale di questo compatto e rilevantissimo partito-non partito. Sulla rilevanza un’ultima riflessione: il 33% dell’82% (1984) è pari al 27% dell’elettorato. Il 33% del 56% è il 18% dell’elettorato (2024). Su ipotetici cinquanta milioni di elettori, parliamo di una differenza tra 13,5 e 9 milioni di persone: 4,5 milioni. Si delinea, quindi, una possibile soluzione al problema della ripresa di coscienza politica in Italia: riportare la gente a votare; ma questa non sembra essere una concreta preoccupazione di nessun partito: viene, anzi, il timore che una sempre più bassa percentuale di affluenza semplifichi, in qualche modo, la vita ai partiti; il che potrebbe anche essere vero ma solo sul breve termine: perché, in questo modo, le idee e i progetti avranno un orizzonte sempre più corto, sempre più immediato, sempre più teso a soddisfare l’onda del momento e non avranno la forza di guardare verso il futuro.
Non è un caso che si facciano grandi battaglie per declinare un sostantivo al maschile o al femminile ma si parli poco di tutele sul lavoro, di semplificazione ed equità fiscale, di istruzione pubblica. Stanno, invece, tutti lì, a sfregare pollice e indice, facendo “tz-tz, micio micio!” ad Alien, sperando di averlo dalla loro ed esserne posseduti.
Ah, e non scordiamoci di togliere le accise, la prossima volta.