dal uno dei nostri inviati ad Atene
Il fronte del NAI (si pronuncia nè), dei SÌ, ad Atene è silenzioso. Nelle strade i cartelloni con la scritta OXI, NO, sono dappertutto. Ovunque vai per terra ci sono dei volantini da poco distribuiti. Nei quartieri popolari si respira l’aria del plebiscito. Dappertutto cartelloni per il sì sono molto meno, e anche la gente che sostiene l’accordo non ama parlarne. In tanti, davvero tanti, rispondono un po’ scocciati quando gli si chiede cosa voteranno, e spesso si barricano dietro a un vago “non lo so”, o a un più diretto, “non lo voglio dire”. Si capisce che sono per il sì perché quelli che votano no è difficile farli smettere di parlare. Gli chiedi cosa pensano della situazione e si infervorano, maledicono i governi, l’Europa e la Merkel. Il fronte del sì, tra la gente comune, è molto più discreto. Ovviamente tutti i quartieri ricchi sostengono l’accordo e accusano Alexis Tsipras di aver portato il Paese allo sfascio. C’è sicuramente una divisione di classe tra i due fronti, ma la questione, se ci si sforza di scavare a fondo, si capisce che è molto più complicata.
Di sicuro quello che unisce il fronte del sì è la paura: la paura di cosa accadrà lunedì, la paura di uscire dall’Europa, di tornare alla dracma, dell’inflazione. Una paura in buona parte istigata dai media che nel Paese sono per la maggior parte schierati per l’accordo. Ma è anche la paura sincera, riflessiva, e un po’ rassegnata, di chi non ha più fiducia in una classe politica ritenuta incapace di portare il Paese fuori dalla crisi in tutti questi anni, e che vede nell’Europa una speranza di salvezza, per quanto una salvezza “severa” e che comporterà sacrifici.
Roccaforti del sì sono sicuramente i quartieri di Kolonaki e Kifissia. Kolonaki è considerato il quartiere aristocratico di Atene, dove ci sono i negozi più costosi, ristoranti lussuosi, caffetterie e bar di tendenza. Una donna sulla sessantina, che risponde appieno allo stereotipo del quartiere, al tavolo di un bar è sconsolata e arrabbiata: “Il sì ha già perso – dice – in questo quartiere voteremo tutti sì, ma nel resto della città la maggioranza è per il no. Ma tanto non cambia niente, Tsipras ha spaccato il Paese in due, e ormai qualsiasi cosa deciderà il referendum le cose non potranno che andare peggio, e la crisi si aggraverà”. Suo figlio, seduto al tavolo con lei, ha una ditta che commercia carne. “Si sta facendo un gran baccano per l’Iva, ma i prodotti che io tratto sono già al 23% e non è certo questo che ostacola il mio lavoro. Ci dicono che se si porta dal 13 al 23% l’Iva dei ristoranti il settore ne risentirà, ma davvero pensate che per un 10% in più la gente non andrà più a mangiare fuori e i turisti scapperanno?”.
Poco più avanti, nei pressi della chiesa del quartiere, un’altra donna, lei no, niente affatto appartenente allo stereotipo della ricca borghese, facendosi tradurre quello che dice da sua figlia, mi spiega che non andrà a votare, “tanto sono tutti ladri e Tsipras non è diverso, è un bugiardo”, afferma gesticolando, per provare a farsi capire anche in greco, “ha promesso che non avrebbe chiuso le banche, e le banche sono state chiuse. Ora dice che dopo 48 dal referendum ci sarà un accordo. È pazzo”. Poi quando capisce che sono italiano mi fa: “Renzi sì che è bravo”. Renzi? Lo conosce? Cosa le piace di lui? “Si vede che è uno capace”, si limita a ripetere, ma insistendo: “Renzi è bravo”. Il quartiere sarà anche una roccaforte del sì, ma per per tutto il corso principale non c’è neanche un cartello di propaganda.
Kifissia, è la periferia “bene” della capitale, mi hanno suggerito di andare lì perché con il suo verde e le sue villette, è la dimora della classe agiata. “Io voterò sì”, mi dice una signora molto distinta. È evidentemente scocciata della mia domanda ma risponde comunque con cortesia. “Voterò sì perché adesso, a causa di questa consultazione, qualunque sia il risultato, le cose potranno solo peggiorare. Ma se vince il sì magari Schauble deciderà di darci comunque una mano”. Cita proprio lui, Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco. Non Juncker, non Draghi, non Lagarde e nemmeno Merkel, ma proprio lui, Schäuble.
Effettivamente a Kifissia in tanti garantiscono che voteranno per il sì, anche se nel parco di fronte alla stazione della metropolitana, trovo molti sostenitori del no. Ma una di loro mi spiega: “Io vengo qui a portare i bambini, ma sono di un altro quartiere. Qui votano tutti sì perché hanno i soldi, e hanno paura di perdere quello che hanno. Io sono già disoccupata, che altro ho da perdere? Quindi voto no”.
Ma non sono solo i ricchi che voteranno sì. Un tassista poco lontano, mentre aspetta un cliente, si lascia intervistare. “Io voterò sì, non che sia convinto dell’accordo, ma meglio un brutto accordo che niente. L’Europa può aiutarci a evitare il peggio”. Si lamenta di quante tasse deve pagare e che a malapena a fine messe riesce a pagare tutte le bollette, ma è per il sì. “L’austerità ce la siamo cercata, i nostri politici ci hanno governato male, è vero, ma anche noi del popolo abbiamo le nostre colpe. In troppi fanno i furbi”. La sua stessa famiglia dimostra che il Pese è diviso, ma di una divisione che non è necessariamente scontro. “Mia moglie voterà no”, mi spiega, “nessuno di noi due è convinto di quello che farà, ma non possiamo e non dobbiamo rischiare di uscire dall’Europa”.
Nel viaggio di ritorno in metropolitana parlo con Marina. Lei ha 32 anni e lavora in una delle aziende che si stanno occupando dei sondaggi. Cosa dicono le ultime proiezioni? Le chiedo. “È un testa a testa”. E tu cosa voterai? “Io voterò sì”. Allora sei ricca? Scherzo io. Lei sorride. “Sai quanto guadagno? 300 euro al mese, ma voterò sì, e sai una cosa?”. Cosa? “Io ho votato Syriza”. E dalle elezioni a oggi cosa è successo, hai cambiato idea? “La gente come Samaras e Papandreou ha portato il Paese in questa situazione, in Tsipras ho visto un cambiamento. E sono ancora convinta che lui sia sincero, ma questo non basta. Da lui volevo un progetto per il Paese che si basasse sulla responsabilità. Volevo che andasse al tavolo dei negoziati e negoziasse il migliore accordo possibile per noi, tirando la corda il più possibile, anche rifiutando l’ultima offerta. Ma insistendo, con correttezza e responsabilità, perché l’Europa capisse che abbiamo bisogno di un accordo più giusto. Invece lui no, ha fatto il duro, ha fatto saltare il tavolo e ha chiuso il filo del dialogo. Non è questo il cambiamento che gli avevamo chiesto”.