Bruxelles – Se i sondaggi avranno ragione, domenica prossima le elezioni regionali in Germania porteranno per la prima volta al potere l’ultradestra. Al centro del dibattito politico c’è la questione migratoria, strumentalizzata dalla destra radicale (e, recentemente, anche dalla sinistra rossobruna). Sarà l’ennesima dimostrazione plastica di quanto, nonostante la riunificazione 34 anni fa, il Paese sia ancora profondamente diviso.
Domenica prossima, il primo settembre, gli elettori si recheranno alle urne per eleggere i Parlamenti regionali nei due Länder orientali della Sassonia e della Turingia, che dopo il 1945 finirono sotto l’occupazione sovietica come parte dell’allora Germania Est. Stando alle rilevazioni pre-elettorali, in Sassonia il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) viaggia tra il 31 e il 33 per cento dei consensi e si attesta al 30 per cento in Turingia. Qui, il prossimo premier regionale diventerebbe il leader della frangia più estremista del partito, Björn Höcke: uno che utilizza gli slogan delle SA (le Sturmabteilung, o “camicie brune”, che aiutarono Adolf Hitler a salire al potere) nei comizi elettorali, o che lamenta la costruzione di un memoriale dell’Olocausto nella capitale. Nel 2019, una corte tedesca aveva stabilito che dare del “fascista” a Höcke non costituisce diffamazione poiché esiste “una base fattuale verificabile”. Anche nel Brandeburgo, dove si vota il 22 settembre, l’AfD dovrebbe ottenere un confortevole 24 per cento. Resta tuttavia da vedere quante reali possibilità abbia l’estrema destra di entrare realmente nelle stanze dei bottoni, a meno di formare esecutivi di minoranza: gli altri partiti (che vanno verso una sostanziale sconfitta nelle urne) hanno per ora escluso di voler entrare in coalizioni di governo con l’AfD, e se manterranno la promessa i negoziati saranno complessi.
L’ascesa dell’ultradestra etno-nazionalista non è un fulmine a ciel sereno nella prima economia europea. Da parecchi mesi, l’AfD sta volando nei sondaggi: al momento è data intorno al 17 per cento su scala nazionale, e alle europee dello scorso giugno ha preso poco meno del 16 per cento. Si tratta del secondo posto dopo l’Unione cristiano-democratica guidata da Friedrich Merz (che comprende la Cdu di Ursula von der Leyen e la Csu, il partito-gemello bavarese di Manfred Weber) e prima dei socialdemocratici del cancelliere Olaf Scholz (Spd). Soprattutto, l’AfD è da tempo in testa nelle intenzioni di voto in tutti i Länder orientali, quelli che tra il 1945 e il 1990 componevano la Repubblica democratica tedesca (Ddr) – il Brandeburgo, il Meclemburgo-Pomerania anteriore, la Sassonia, la Sassonia-Anhalt e la Turingia – con percentuali che oscillano tra il 24 e il 33 per cento. Solo a Berlino i consensi del partito sono sensibilmente inferiori, intorno al 12 per cento.
A livello federale, l’AfD è stata classificata come “sospetta organizzazione estremista di destra” dall’Ufficio federale per la protezione della Costituzione (Bfv), il servizio di intelligence civile tedesco, mentre i suoi rami regionali in Sassonia e Turingia sono stati dichiarati “senza dubbio estremisti di destra“. Il partito, fondato nel 2013 in chiave anti-euro e progressivamente spostatosi sempre più verso l’estremo destro dello spettro politico assumendo posizioni islamofobe, anti-migranti e neo-naziste, è attualmente il quinto per numero di eletti al Bundestag, il Parlamento federale, con 83 seggi (nella legislatura precedente, la diciannovesima, era il terzo con 94 deputati). Tra i punti del suo programma c’è ancora la “Dexit”, cioè l’uscita della Germania dall’Unione europea sul modello del Regno Unito.
Del resto, la reazione popolare a questi sviluppi è stata forte: da inizio anno, centinaia di migliaia di cittadini tedeschi si sono riversate nelle strade e nelle piazze del Paese per chiedere alle autorità federali di mettere al bando il partito, che definiscono neo-nazista e che ritengono un serio pericolo per la tenuta democratica della Germania. A innescare la miccia delle proteste era stata, a metà gennaio, un’inchiesta giornalistica sui presunti piani di “remigrazione” (cioè espulsioni su larga scala di migranti con permesso di soggiorno e richiedenti asilo, nonché di cittadini tedeschi di origine straniera) che sarebbero stati elaborati da alcuni vertici di AfD e che non sono poi stati smentiti in modo netto. Ma il dato politico di fondo rimane: quello della gestione dei flussi migratori è uno dei temi centrali del dibattito pubblico tedesco, soprattutto ora che il Paese è piombato nuovamente nell’incubo terrorismo. E infatti, oltre all’AfD, sulla questione migratoria martellano anche la Cdu-Csu da un lato e il nuovo soggetto politico dell’estrema sinistra, la Bündnis Sahra Wagenknecht (abbreviato in Bsw, letteralmente “alleanza Sahra Wagenknecht” dal nome della sua fondatrice, esule dalla sinistra radicale di Die Linke), dall’altro.
E tanto gli estremisti di destra quanto i cosiddetti rossobruni a sinistra sembrano destinati a fare incetta di voti al di là di quel confine che durante la Guerra fredda separava il Vecchio continente, la Cortina di ferro. Se, come detto, l’AfD ha un vantaggio medio di circa una dozzina di punti percentuali nei Länder orientali, anche l’ultimo arrivato sulla scena politica tedesca, il Bsw, dovrebbe ottenere i risultati migliori nella ex Ddr: tra il 12 e il 18 per cento, contro una forbice che va dal 2 al 9 per cento nel resto del Paese. È solo l’ultimo di una serie lunghissima di indicatori che puntano ad una spaccatura profonda tra i due “volti” della Germania, mai sanata pienamente dalla riunificazione del 1990, 34 anni fa.
Le strutture delle opportunità sociali, culturali, politiche ed economiche dell’est e dell’ovest del Paese sono rimaste per molto tempo imparagonabili, con gli “Ossis” (abitanti delle regioni orientali) che si sono sentiti assimilati (piuttosto che integrati) dai “Wessis” (cittadini dei Länder occidentali) nella loro nuova patria comune, resa tangibile soprattutto dall’economia di mercato e dal Deutschmark. Tutto questo ha reso più facile per gli opposti populismi criticare le élite e additare i migranti come l’origine e la causa di tutti i mali dei tedeschi.
Una recente indagine ha svelato, ad esempio, grosse differenze nel rapporto con le istituzioni democratiche dei tedeschi: mentre il 27 per cento degli intervistati nell’ex Germania Ovest sostiene di vivere “solo in apparenza in una democrazia“, questa percentuale sale al 54 nell’ex Ddr. Allo stesso modo, sei cittadini su dieci nelle regioni orientali vorrebbe dei leader forti al comando del Paese che non perdano tempo in “dibattiti e compromessi senza fine” mentre nei Länder occidentali si dice d’accordo il 49 per cento. Le preoccupazioni condivise da tutti i tedeschi, comunque, sono legate principalmente alla guerra in Ucraina (73 e 71 per cento a est e ovest, rispettivamente) e al conseguente aumento dell’inflazione in una congiuntura economica particolarmente delicata per la “locomotiva d’Europa” (75 e 67 per cento), mentre il “pericolo invasione” dei richiedenti asilo spaventa rispettivamente il 69 e 59 per cento.