di James K. Galbraith
La Grecia si avvia verso un referendum da cui dipende il futuro non solo della Grecia e di Syriza, ma forse anche dell’euro e della stessa Unione europea. Allo stato attuale, la Grecia non ha pagato l’ultima rata dell’FMI, i negoziati sono bloccati e buona parte dell’establishment è ingaggiata in una guerra mediatica contro Syriza, invitando i greci a votare “sì” e ad accettare le “riforme” dei creditori al fine di «salvare l’euro».
Per capire la feroce battaglia in corso, dobbiamo innanzitutto tenere a mente la miopia e la piccolezza degli attuali leader europei, votati a interessi localistici e sforniti, sia moralmente che intellettualmente, degli strumenti necessari per gestire un problema che è di portata continentale. Questo vale per Angela Merkel in Germania, per François Hollande in Francia e anche per Christine Lagarde del Fondo monetario. I leader nordeuropei non hanno vissuto la crisi sulla loro pelle e sono economicamente incompetenti; in questo senso sono diametralmente opposti ai greci.
I leader nordeuropei non concepiscono alternativa alle condizioni stabilite dalle “istituzioni”. La regola dei negoziati era una sola: maggiori concessioni da parte greca. Qualunque obiezione da parte di Varoufakis era vista come un bluff. Quando hanno capito che non stava bleffando, sono passati al linciaggio mediatico e alla macchina del fango.
A differenza di quanto si legge in giro, il governo greco sapeva fin dall’inizio che avrebbe incontrato l’ostilità della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda, la diffidenza dei partiti di centrosinistra in Francia e in Italia, l’ostruzionismo totale della Germania e del Fondo monetario internazionale, e un tentativo di destabilizzazione da parte della BCE. Ma per lungo tempo questa posizione non è stata maggioritaria dentro Syriza. Molti personaggi influenti all’interno del partito la pensavano diversamente, mentre altri ritenevano che la Grecia avrebbe fatto bene a prendersi quello che gli veniva offerto. Per cui Tsipras ha cercato la via del compromesso, accettando una concessione dopo l’altra.
Alla fine, il governo ha finito per cedere anche sulla richiesta dei creditori affinché la Grecia conseguisse degli avanzi primari massici e permanenti per molti anni a venire. È stato un duro colpo per il governo, perché voleva dire accettare l’austerità, anche se in forma ammorbidita, che il governo aveva promesso di ribaltare. Ma i greci hanno insistito per determinare almeno quale tipo di austerità avrebbero implementato, aumentando le tasse sui ricchi e sugli utili d’impresa. Almeno la proposta del governo greco salvaguardava le pensioni dei greci più poveri e non cedeva su alcuni diritti fondamentali del lavoro.
Ma i creditori hanno rifiutato anche questa proposta, insistendo per decidere non solo quanta austerità avrebbe dovuto la Grecia ma anche come avrebbe dovuto farla. «Prendere o lasciare», hanno detto a Tsipras, sapendo benissimo che non poteva accettare. A quel punto Tsipras ha deciso di giocarsi tutto con il referendum.
La reazione furibonda dei leader europei era probabilmente sincera. Forse non avevano ancora capito che avevano a che fare con qualcosa che non si vedeva in Europa da vari anni: un vero leader politico. Che, come Varoufakis, intende quello che dice.
Di fronte alla decisione di Tsipras di indire un referendum, Merkel e il suo vice Sigmar Gabriel, Hollande, Cameron – e, vergognosamente, anche il leader italiano Matteo Renzi – hanno tutti fatto sapere ai greci che il referendum sarebbe stato un voto sull’euro. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è andato anche oltre, sostenendo che sarebbe addirittura stato un voto sulla permanenza della Grecia nell’Unione europea. Si è trattata di una vera e propria campagna di terrorismo psicologico: arrendetevi o sarà peggio per voi.
La verità è che questo non è un voto né sull’euro né sull’UE. È un voto sulle condizioni richieste dai creditori. La minaccia di espellere la Grecia dall’euro è chiaramente un bluff. Non esiste nessuna maniera legale per cacciare la Grecia dall’eurozona o dall’UE. Il referendum riguarda anche la sopravvivenza dell’attuale governo greco. I leader europei lo sanno, e per questo stanno facendo di tutto per rimuovere Tsipras dall’equazione.
Cosa ci guadagnerebbe Tsipras da una vittoria del “no”? Oltre alla sua sopravvivenza politica, sarebbe una maniera per dimostrare una volta per tutte che non può piegarsi alle richieste dei creditori. A quel punto, quindi, l’onere sarà di nuovo su questi ultimi; se sceglieranno di distruggere deliberatamente un paese europeo, dovranno farlo sotto gli occhi del mondo intero.
Detto questo, una vittoria di Tsipras è tutt’altro che certa. Alle elezioni di gennaio, il suo partito ha preso solo il 40% dei voti; stavolta ha bisogno di una maggioranza. C’è paura e confusione in giro. Di fatto i greci devono scegliere tra due incognite, e questo non è mai facile.
In caso di vittoria del “no”, ci sarà ovviamente una certa incertezza sul futuro economico del paese. Le banche potrebbero rimanere chiuse, i depositi potrebbero andare perduti e i creditori potrebbero tenere fede alle loro minacce. L’incertezza è acuita dal fatto che il governo non può insistere sul fatto che rimarrà nella moneta unica e allo stesso tempo spiegare come intende gestire un’uscita forzata. Se esiste un “piano B”, è stato tenuto ben nascosto.
In caso di vittoria del “sì”, d’altro canto, l’incertezza sarà politica. Syriza potrebbe spaccarsi e il governo potrebbe essere costretto a dimettersi. E poi? Al momento non esiste nessuna alternativa credibile in Grecia. Inoltre, nessun governo che accettasse di arrendersi alle richieste della troika e di aggravare ulteriormente la crisi durerebbe molto a lungo.
È anche probabile che in caso di vittoria del “sì” – e dell’aggravarsi della depressione – l’opposizione ufficiale non sarebbe più la sinistra europeista che è oggi al governo, che a quel punto sarebbe stata spazzata dall’Europa stessa, ma piuttosto un partito di sinistra o di destra (il pensiero va subito ad Alba Dorata) opposto sia all’euro che all’Unione. Il paradosso è che la vera speranza – l’unica speranza – per l’Europa consiste in una vittoria del “no”, seguita da una ripresa dei negoziati per giungere ad un accordo dignitoso. Una vittoria del “sì” sarebbe una vittoria a favore della paura, contro la dignità e l’indipendenza. La paura è un’arma potente – ma la dignità e l’indipendenza, prima o poi, tendono a prevalere.
Pubblicato su The American Prospect l’1 luglio 2015.