di Willem Buiter, capo economista di Citigroup
La soluzione più ovvia alla crisi greca – drastiche riforme strutturali “fatte proprie” dal governo e dalla popolazione in cambio di un taglio del debito e di nuovi finanziamenti – si è rivelata impossibile. Ora le due parti hanno bisogna di una exit strategy alternativa, che da un lato risponda al desiderio dei greci di essere (o di apparire) padroni del loro destino, e dall’altro limiti l’esposizione dei paesi creditori. La soluzione che propongo si articola su cinque livelli.
Primo, le misure di consolidamento fiscale e le riforme strutturali. Su quel fronte, il governo greco dovrebbe essere libero di fare come vuole. L’assurdo rituale dell’amministrazione controllata del paese da parte delle istituzioni internazionali (la ex troika) deve finire.
Secondo, bisogna risolvere la questione dei crediti detenuti dalle istituzioni europee e dal Fondo monetario internazionale. La BCE si rifiuta di farsi carico di tali debiti, sostenendo che questo ammonterebbe a una forma di finanziamento monetario del governo greco. Questo problema potrebbe essere aggirato se se ne facesse carico il Meccanismo europeo di stabilità (MES), il fondo salva-Stati allestito nel 2012. Quest’ultimo potrebbe effettuare un prestito ad Atene che nei primi anni non preveda rate di rimborso. Poiché le altre passività dello Stato greco hanno scadenze molto lunghe e interessi differiti, gli obblighi finanziari del governo si ridurrebbero drasticamente.
Terzo, le istituzioni internazionali non devono prestare altri soldi allo Stato greco. I rimanenti 7,2 miliardi di euro dell’attuale “programma di salvataggio” non devono essere sborsati. Il governo greco deve cavarsela da solo.
Quarto, bisogna impedire alle istituzioni monetarie internazionali di rifinanziare di nascosto il governo greco. Per questo, il debito greco deve essere escluso dal programma di quantitative easing della banca centrale, e i titoli di Stato ellenici non dovranno più essere accettati dalla BCE come collaterale.
A causa di ciò, molte banche greche potrebbero ritrovarsi a corto di capitale. Il quinto elemento del piano, dunque, consiste nella ristrutturazione e ricapitalizzazione di queste banche da parte delle autorità europee, permettendole così di operare senza avere bisogno dei titoli pubblici come collaterale. Le banche greche continuerebbe ad avere accesso alla normale liquidità della BCE e alla liquidità di emergenza, se necessario, a patto che siano solventi e che siano in grado di offrire il collaterale necessario, indipendentemente dal governo. La BCE dovrà impedire alle banche greche di effettuare nuovi prestiti allo Stato.
Questa proposta permette ai greci di riprendersi in mano il proprio destino. Introduce in Grecia una drastica forma di unione bancaria, che rende possibile salvare le banche senza salvare il governo. Questo rafforza il principio secondo cui un’unione monetaria non dovrebbe rappresentare un ostacolo alla ristrutturazione del debito sovrano di uno dei suoi membri. Inoltre, pone fine ai salvataggi “nascosti” delle banche e del governo che sono stati condotti sotto le spoglie della fornitura di liquidità di emergenza, restituendo credibilità alla BCE. Ed evita all’FMI l’imbarazzo di prestare altri soldi ad uno Stato che è palesemente insolvente. Viene anche posta fine all’assurda commedia per cui Stati molti più poveri di qualunque paese dell’eurozona devono assumersi degli oneri finanziari per salvare la Grecia.
I contribuenti europei si ritroverebbero così per le mani, attraverso il MES, un gran numero di titoli di Stato greci che potrebbero non essere mai ripagati. Ma la verità è che già possiedono una buona parte di questi titoli, attraverso le autorità monetarie dell’eurozona. L’unico esborso reale che questo piano comporta è la ricapitalizzazione delle banche greche. Ma è un piccolo prezzo da pagare per porre fine allo strazio del dramma greco. E comunque una parte dei soldi può essere attinta dal Fondo di stabilità finanziario ellenico già esistente.
Nel migliore dei casi, le riforme vengono implementate, l’economia riprende a crescere e il governo può tornare sui mercati – una vittoria sia per la Grecia che per le istituzioni.
Nel peggiore dei casi, la sofferenza della popolazione greca continua, vengono imposti controlli di capitale e lo Stato si vede costretto ad emettere una valuta parallela per pagare gli stipendi e le pensioni. A quel punto il governo potrebbe decidere di uscire dall’euro. Ma non c’è nessun motivo per cui un default dentro l’euro debba necessariamente provocare una crisi bancaria e una fuoriuscita improvvisa dall’euro.
Si dice che una delle definizioni di follia sia fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. È ora di porre fine alla follia, in Grecia e nell’eurozona.
Pubblicato sul Financial Times il 21 giugno 2015.