I magistrati riaffermano un principio che in epoca di austerità è stato facile accantonare in nome di un pragmatismo che promette di trovare soluzioni a problemi che vediamo con crescente insofferenza. In tempi di crisi le risorse destinate alla traduzione e all’interpretariato nelle istituzioni europee possono sembrare un’inutile spreco, ma il multilinguismo è alla base del processo di integrazione europea e per questo occorre difenderlo.
L’Unione Europea è prima di tutto un’unione tra cittadini che parlano lingue diverse, che a loro volta esprimono culture e storie che hanno deciso di convergere nel progetto di unificazione. Se dimentichiamo questo, se cominciamo a valutare col pallottoliere ciò che conviene e ciò che invece non dà benefici immediati, rischiamo di mettere in dubbio la stessa idea di Europa.
Semplificare, razionalizzare – e
oggi tagliare – può andar bene per un’azienda (e per molti bilanci pubblici) ma è improponibile applicare questo principio pragmatico ai valori che uniscono la nostra Europa, che rappresenta la somma di storie che hanno bisogno di mantenere la propria identità per continuare a convivere e a rigenerarsi in armonia.
E’ un peccato però che dietro questo pragmatismo linguistico, oltre agli interessi dei paesi che contano di più all’interno delle istituzioni europee, si nasconda soprattutto il disinteresse verso quello che fino a poco tempo fa veniva considerato come un diritto faticosamente acquisito dei cittadini europei. Quello dell’uguaglianza.
Le lingue di lavoro, ora spodestate dalla sentenza, sono uno un pratico strumento di cui chiunque si avvarrebbe pur di terminare presto le proprie otto ore. L’inglese, soprattutto, è diventato una lingua franca, che fa comodo a tutti e semplifica l’ordinaria amministrazione della quotidianità degli uffici comunitari. L’adozione di una lingua di lavoro, per quanto utile a giungere ai necessari compromessi della vita comunitaria, non esprime la varietà, le differenze e le potenzialità di rinnovamento insite nell’armoniosa coesistenza di lingue diverse.
Una difesa imbelle della lingua, eseguita d’ufficio, quasi a temere la derisione da parte dei pesi massimi delle lingue globali, rivela una preoccupante disattenzione verso i nostri diritti fondamentali.
Se dunque intendiamo continuare a portare avanti il progetto europeo, occorre ricordarci dei principi fondamentali e degli ideali che lo hanno reso possibile. Anche attraverso la difesa della lingua madre quei principi trovano sostanza e vigore. Volere un’unione che non riconosce la pluralità degli elementi che la costituiscono è un paradosso, e nasconde il graduale processo di assoggettamento alla cultura del più forte che
oggi più che mai sembra dominare il nostri destini.
Nessuno vuole immaginare una babele dove ognuno parla la sua lingua e nessuno si capisce, ma quello di vedere la propria lingua madre collocata allo stesso livello delle altre deve essere un diritto che dobbiamo reclamare con forza.
Filippo Segato, Segretario della Società Dante Alighieri, Comitato di Bruxelles
Sullo stesso argomento ieri abbiamo pubblicato un intervento di Diego Marani