C’è un filo rosso che collega tutte le grandi questioni della modernità, dalle rivoluzioni arabe ai referendum britannici, dalle guerre russe all’immigrazione ed è quello dell’identità. La questione identitaria contamina ormai anche i comportamenti individuali, la percezione che il cittadino ha delle istituzioni e in generale dell’autorità a tutti i livelli della società, dalla famiglia, alla scuola alla vita politica. L’identità è sempre più la chiave di lettura di tutto, sta alla base del riconoscimento, della realizzazione di sé, di quella che Papa, Francesco ha chiamato dignità e scatena la rivendicazione di ogni diritto, dai più leciti ai più pretestuosi. Forse perché resta qualcosa di irrisolto nella questione identitaria che non vogliamo affrontare.
La ricerca dell’identità scaturisce dalla conquista della libertà. Nelle società premoderne la questione identitaria non esisteva. Il riconoscimento veniva concesso gerarchicamente dal sovrano fino ai livelli più bassi della società che si identificavano nella loro stessa emarginazione. La Rivoluzione francese inventa un’identità di popolo, dove non esiste più una gerarchia di casta e ciascuno riceve riconoscimento identitario dal contributo che dà alla prosperità della nazione. Ma il cittadino non è libero di essere quello che vuole. Esiste solo come membro della nazione.
Lo Stato nazionale della rivoluzione industriale si impossessa di questi strumenti per ottenere la massima omogeneizzazione della società, funzionale alla produzione capitalistica. Per facilitare la standardizzazione traccia le sue frontiere politiche e linguistiche con le più micidiali guerre della storia. Per meglio controllare i sistemi di produzione e la massa di lavoratori, costruisce mitologie razziste ed esclusiviste che diano un senso di solidarietà e appartenenza nazionale e non sociale. Sotto la sua spinta cadono i grandi imperi multinazionali, inadeguati al sistema industriale. Il colonialismo esporta indiscriminatamente questo modello ovunque nel mondo, innescando bombe a orologeria che una ad una stanno ora esplodendo.
La secolarizzazione dell’Occidente e poi la caduta delle ideologie nell’epoca della modernità hanno portato ad un crescente discredito di ogni forma di autorità e al dilagare dell’individualismo. Anche chi si considera credente spesso si confeziona una religione fai da te che non coincide col dogma della propria chiesa. Nella ricerca della propria autenticità, l’individuo si sente autorizzato a respingere ogni appartenenza in cui non si senta pienamente compreso. Ma nessuna riesce a soddisfare mai durevolmente la mutevole natura umana. Come il nazionalismo aveva creduto di trovare l’autenticità in un presunto spirito delle nazioni, così con la fine delle fedi e dell’autorità, dalle nazioni questa ricerca si propaga psicanaliticamente agli individui.
L’uniformizzazione portata dalla globalizzazione dei mercati ha esasperato ancora di più questo bisogno di differenziazione. La nazione non basta più. Così si riscoprono e inventano localismi, nuove o presunte antiche appartenenze. Ma anche i comportamenti più banali diventano identitari. Ci si identifica in un genere musicale, in un modo di vestire, in sette e bande, in costumi sessuali e in diete alimentari, sempre nell’insaziabile bisogno di esistere, di non essere confusi con gli altri. Ogni minoranza chiede riconoscimento e da ogni parte si erode quel poco che ci comprende ancora tutti, sempre più ridotto al solo principio di essere liberi di smarcarci, di sfuggire a qualunque appartenenza che possa standardizzarci.
Eppure, per quanto lo neghiamo, abbiamo bisogno di un’appartenenza più alta, sotto la quale tutti i diritti siano riconosciuti e che sia espressione di un’autorità condivisa. Ci sgoliamo a dirlo che l’Europa economica non basta, che serve anche un’Europa politica. Ma continuiamo a navigare a vista e a parare colpi invece di tracciare strategie. Questo bisogno di appartenenza lo vediamo espresso anche nel comportamento estremo di giovani cittadini europei che vanno ad annientarsi nel dominio brutale di Daesh. Finché le sole appartenenze che possiamo offrire saranno quelle degli Stati nazionali o dei grandi principi astratti e asettici, i cittadini europei continueranno a disperdersi nella ricerca di un’inafferrabile autenticità.
Gli Stati nazionali sono ormai costruzioni antistoriche e non è a inventarne di nuovi che si esce dal labirinto identitario. Le minoranze che cercano rivalsa in nuove forme di statalità sempre più ristrette imboccano un vicolo chiuso perché ripetono gli errori dei loro dominatori. La minoranza si protegge aprendo le porte della riserva, non creandone continuamente di nuove.
C’è una grande ambiguità nella politica dei nostri Stati quando si tratta di minoranze e di diritti. Per talune, le cosiddette storiche, ogni diritto è lecito. Per altre invece la storia è stata deviata. Qualche migliaio di cittadini sloveni in Italia godono di ogni diritto e riconoscimento, di scuole e giornali nella loro lingua, come tanti altri gruppi minoritari altrove nell’UE. Invece, più di un milione di russi nei paesi baltici non sono neppure riconosciuti come minoranza. Per paura della loro ingerenza, dice un senso politico diffuso e miope. Non si capisce che invece riconoscerli e dare loro ogni strumento per conservare la loro identità e la loro lingua sarebbe il modo più efficace per strapparli all’influenza della Russia. Cittadini russi liberi, riconosciuti e tutelati nell’Unione europea diventerebbero i più tenaci sostenitori della costruzione europea e un dirompente esempio per i loro connazionali oltre frontiera. Questo sì che sarebbe un bell’esempio di soft-power! Lo stesso vale per tutte le minoranze non riconosciute in altri Stati dell’UE. Gli angusti Stati-prigione che abbiamo favorito nei Balcani non sono il nostro modello. Il nostro modello è il miscuglio, la libera circolazione, il mosaico di comunità tutte diverse ma tutte agganciate l’una all’altra da un legame di prossimità culturale e di dialogo incessante che la diversità linguistica non ha mai impedito perché prima degli Stati nazionali ogni regione d’Europa ha sempre avuto la sua lingua veicolare.
Sarà difficile soddisfare l’incessante bisogno di differenziazione dell’uomo occidentale. La libertà l’ha inventata l’Occidente e in certe parti del mondo non è un valore, anzi è addirittura considerata un pericolo. Noi non potremmo farne a meno. È il prodotto forse più caratterizzante della nostra civiltà. Ma la logica della libertà ha le sue ineluttabili conseguenze e la ricerca identitaria è una di queste. Il riconoscimento identitario però conserva il suo valore solo se non porta a un’irrecuperabile disgregazione della società che alla fine distrugge la libertà stessa. L’identità è un processo, non un’armatura in cui ci si rinchiude per proteggersi dal cambiamento. È proprio a questo processo, innescato dall’Europa dell’Unione europea, che possiamo dare un valore identitario e di appartenenza. Noi apparteniamo al cambiamento, questa è la nostra identità. L’alternativa è dissolversi in 500 milioni di minoranze.