di Alessandro Cianci
Una volta un funambolo provò a superare un burrone su di una corda tesa, aiutandosi nell’equilibrio necessario alla rischiosa impresa con un’asta lunga 10 piedi. Nulla di strano, se non fosse che il nostro funambolo decise di afferrare l’asta non al suo mezzo, ma a 4 piedi da una estremità e a 6 dall’altra. La camminata del funambolo durò poco, cadde nel burrone e rovinò su un campo appena seminato. Naturalmente un funambolo così sprovveduto non è mai esistito, neanche nelle favole.
Nel 2011 l’Europa stava facendo i conti con la cosiddetta crisi dei debiti sovrani. Paradossalmente, la crisi è stata chiamata in questo modo perché causata da mille motivi, tra i quali solo all’ultimo posto figurava la situazione dei debiti sovrani. Che le cause fossero diverse lo sapevano tutti, in primis l’Europa della Commissione. È stato per questo che, nel novembre 2011, è stata introdotta la Procedura per gli squilibri macroeconomici (MIP, Macroeconomic Imbalances Procedure). La procedura, per sua stessa ammissione, è un meccanismo di sorveglianza che mira a prevenire e correggere gli squilibri macroeconomici che possono mettere a rischio (“jeopardize” è il termine usato nella versione inglese) il corretto funzionamento dell’Unione europea e delle economie della zona euro. In pratica, ci si rende conto che, al fine di un corretto funzionamento di una unione monetaria, non è sufficiente prendere in esame meramente i debiti degli Stati, ma è indispensabile che i paesi che la compongono abbiano caratteristiche macroeconomiche che non ne minino le fondamenta.
È stato sancito, quindi, che al meccanismo di sorveglianza, già previsto dal patto di stabilità e crescita, fosse affiancato uno scoreboard che valutasse eventuali squilibri macroeconomici. Lo scoreboard, inizialmente formato da 10 variabili ed oggi composto da 11 indicatori macroeconomici ed ulteriori 28 denominati “ausiliari”, prevede che questi debbano assumere valori compresi all’interno di alcune soglie di riferimento. I “magnifici undici” sono: saldo di conto corrente, posizione netta sull’estero, tasso di cambio reale effettivo, quota di mercato delle esportazioni, costo unitario del lavoro, indice dei prezzi delle abitazioni, passività del settore privato, crediti e debiti del settore privato, variazione della situazione finanziaria e tasso di disoccupazione.
Fin qui tutto tranquillo. Non c’è nulla di strano nel vedere un funambolo che prova a superare un burrone su di una corda tesa, aiutandosi nell’equilibrio necessario alla rischiosa impresa con uno strumento: un’asta lunga 10 piedi.
Sarà certamente un caso, ma il primo (inter pares) indicatore ad essere preso in considerazione è il saldo di conto corrente, vale a dire la differenza tra esportazioni ed importazioni di beni, servizi e redditi tra i paesi. Ricordiamo che se, per ipotesi, il mondo fosse formato da due soli paesi o, più verosimilmente da due soli gruppi di paesi, è chiaro che le esportazioni dell’uno dovrebbero necessariamente coincidere con le importazioni dell’altro. Quindi, se un gruppo di paesi si ostina ad esportare 6 mele, necessariamente l’altro gruppo dovrà importarne altrettante e difficilmente si potrà limitare l’importazione a sole 4 mele. Naturalmente né la zona euro, né l’Unione europea nel suo insieme, rappresentano un’economia chiusa. Ma, dato l’alto tasso di commercio intra-europeo, si comportano più o meno come se lo fossero, dovendo sottostare alle dure leggi della contabilità nazionale.
Diciamo tutto questo perché le soglie previste dalla MIP per il saldo del conto corrente sono sorprendentemente asimmetriche: gli Stati membri devono correggere eventuali squilibri se registrano un rapporto tra esportazioni nette e PIL superiore al 6% (surplus di parte corrente) o inferiore al -4% (deficit di parte corrente). A dire il vero una prima bozza della MIP contemplava delle soglie simmetriche (±4%) ma poi, per l’insistenza del governo tedesco, vale a dire del paese che fa registrare costantemente surplus ben maggiori, si è arrivati al singolare equilibrio asimmetrico che, se esistesse, avrebbe fatto comodo anche al funambolo di cui sopra. Inoltre il six pack – che, tra le altre cose, introduce anche la MIP – pone l’attenzione sui deficit piuttosto che sui surplus, per cui i paesi in surplus permanente possono godere di margini maggiori rispetto ai colleghi in deficit e soprattutto di maggiore tolleranza nel giudizio di squilibrio eccessivo.
Se fossimo in un sistema a cambi flessibili, le monete dei paesi in deficit tenderebbero a deprezzarsi, riducendo conseguentemente le importazioni e quelle dei paesi in surplus tenderebbero ad apprezzarsi riducendo le loro esportazioni. Ma noi abbiamo una moneta unica, quindi questi riallineamenti non sono possibili. Anzi, dati i differenti valori di inflazione, in realtà accade spesso il contrario: paesi come la Germania registrano tassi di inflazione costantemente più bassi dei principali partner commerciali e quindi godono di una svalutazione reale delle esportazioni, la quale contribuisce a far aumentare il surplus, nonché il deficit dei paesi importatori, i quali, sulla base della MIP, sono costretti a sopportare tutto il peso dell’aggiustamento.
È come se il funambolo che ha afferrato l’asta di 10 piedi nel punto sbagliato, dopo esser rovinato nel burrone ed aver distrutto il campo sottostante appena seminato, andasse dal contadino e, rimproverandolo, lo obbligasse a sostituire il campo con un’ampia distesa di morbidi materassi a molle. La cosa più sorprendente della storia del funambolo che non esiste è il finale: il contadino guarda il funambolo in faccia, pensa che la sua richiesta sia assurda ma non riesce a far altro che sbraitare con la moglie per quanto accaduto mentre, sommessamente, comincia ad affilare i materassi per la prossima sconsiderata avventura del funambolo. Funambolo che non esiste.
Vedi anche:
– Il fiscal compact e la sindrome bipolare.
– La formula della felicità, ovvero della stima del Pil potenziale.