di Thomas Fazi
Nell’articolo della settimana scorsa abbiamo scritto che ormai la strategia dei creditori nella trattativa UE-Grecia sembra tutta improntata a spingere deliberatamente la Grecia verso il baratro del default, al fine di far capitolare il governo di Syriza. O, ancora meglio, costringerlo alle dimissioni (non a caso abbiamo parlato di “Syrizexit”). Secondo Mark Weisbrot del Center for Economic and Policy Research di Washington: “Il piano è danneggiare a tal punto l’economia greca nel corso del negoziato da far perdere consenso al governo e infine farlo cadere”. In un articolo di pochi giorni fa il noto economista e analista finanziario Anatole Kaletsky è giunto alla stessa conclusione. Scrive Kaletsky:
Da quando ha preso il potere a gennaio, il nuovo governo greco guidato da Alexis Tsipras ha sempre ritenuto che la minaccia di default – e dunque di una crisi finanziaria in grado, potenzialmente, di far saltare in aria l’eurozona – gli offrisse un certo potere negoziale… Ma si tratta di un calcolo basato su una falsa premessa. Tsipras e Varoufakis danno per scontato che un default costringerebbe l’Europa a scegliere tra due alternative: cacciare la Grecia dall’eurozona o offrire al paese un alleviamento incondizionato del debito. Ma le autorità europee hanno una terza opzione a disposizione in caso di default greco: invece di forzare un “Grexit”, l’UE potrebbe tenere la Grecia intrappolata dentro l’eurozona e asfissiare lentamente il paese, chiudendo i rubinetti della liquidità. A quel punto l’Europa non dovrebbe far altro che rilassarsi e aspettare che il consenso intorno a Tsipras si sgretoli. Al momento questa “strategia dell’assedio” – aspettare che la Grecia non abbia più i soldi per garantire il normale funzionamento della macchina di governo – sembra essere quella offre alle autorità europee le migliori chance di spezzare le resistenza dei greci.
Tutta l’analisi di Kaletsky, però, si basa su una premessa che rischia anch’essa di rivelarsi falsa: ossia che il bilancio primario dello Stato greco (il rapporto tra entrate ed uscite, al netto della spesa per interessi), in avanzo fino alla fine del 2014, si sia trasformato negli ultimi mesi in un disavanzo. Se questo fosse vero, vorrebbe dire che le entrate dello Stato greco non sono più sufficienti a coprire le uscite – gli stipendi dei dipendenti pubblici, le pensioni, ecc. –, il che renderebbe la minaccia di default da parte della Grecia (a cui, è il caso di sottolinearlo, Tsipras e Varoufakis, per il momento, non hanno mai fatto esplicitamente ricorso) un’arma spuntata. Come spiega Kaletsky:
Senza un avanzo primario, un default – anche dentro l’eurozona – non permetterebbe a Tsipras di mantenere le sue promesse elettorali. Al contrario, comporterebbe tagli agli stipendi, alle pensioni e alla spesa pubblica ancora più pesanti di quelli richiesti dalla troika… Anche se il governo iniziasse a pagare gli stipendi e le pensioni con dei cosiddetti “certificati di credito fiscali” o con una qualche forma di moneta parallela, la Corte di giustizia europea stabilirebbe senz’altro che tutti i debiti e i depositi bancari debbono essere ripagati in euro, il che costringerebbe il governo a fare default nei confronti sia dei creditori stranieri che dei cittadini greci, poiché non sarebbe in grado di onorare il valore in euro dei depositi assicurati presenti nelle banche greche. In altre parole, un default dentro l’eurozona, lungi dal permettere a Syriza di onorare le sue promesse elettorali, significherebbe un’austerità ancora più pensate di quella imposta finora dalla troika.
Il problema del ragionamento di Kaletsky è che si basa su un assunto – il fatto che la Grecia oggi registrerebbe un disavanzo primario – che è tutto da dimostrare. Secondo i dati ufficiali del governo, infatti, nei primi quattro mesi del 2015 l’avanzo primario non solo non è scomparso ma risulterebbe addirittura più alto del previsto (2,16 miliardi di euro). A mettere in giro la voce secondo cui la Grecia risulterebbe, in realtà, in disavanzo è stato il Fondo monetario internazionale, secondo cui il governo greco avrebbe enormemente sottostimato il volume delle tasse di difficile riscossione. Scopriremo presto chi dei due abbia ragione.
A prescindere dalla débâcle contabile tra Grecia ed FMI, comunque, l’analisi che Kaletsky fa della strategia dei creditori – che sarebbe tutta orientata ad un “cambio di regime” in Grecia – è condivisibile (ed è condivisa, infatti, da numerosi analisti). Finora, però, la responsabilità di questa strategia è stata attribuita soprattutto all’establishment politico e monetario tedesco – per il quale, seppure con le dovute differenze tra i “falchi” (Weidmann, Schäuble e gli altri) e la Merkel, la priorità sarebbe quella di decretare il fallimento di Syriza –, a cui farebbe da contraltare Mario Draghi, per il quale invece la priorità sarebbe la salvaguardia dell’integrità dell’unione monetaria. Sarebbe lui, secondo molti commentatori, ad aver “salvato” più volte la Grecia dalla furia dei tedeschi, inducendo la Merkel a più miti consigli poco prima che la corda si spezzasse.
Questa lettura degli eventi, però, cozza con i fatti. Se la Grecia oggi si trova a un passo dal default la principale responsabilità è della BCE, non dei tedeschi. Come scrive Paul De Grauwe: “Continuare a rifiutarsi di offrire liquidità alla Grecia farebbe della BCE il principale responsabile di un default e di una possibile fuoriuscita dall’euro della Grecia”. Questo è vero soprattutto se si considera, come sostiene Mark Weisbrot, che “nella guerra dell’Europa contro il nuovo governo greco, a sparare i primi colpi è stata proprio la BCE, che il 4 febbraio, a soli nove giorni dalle elezioni, ha privato il governo greco di una delle sue principali linee di credito, pur avendo varie settimane a disposizione per prendere una decisione”. In sostanza, se fino a quel giorno le banche greche riuscivano ad approvvigionarsi di liquidità fornendo a garanzia titoli di Stato che ufficialmente erano considerati “spazzatura” – un’eccezione concessa a quei paesi che sottostanno a un programma di assistenza della troika –, il 4 febbraio la BCE ha preso la decisione di escludere i bond greci dai titoli che possono essere usati dalle banche come collaterale “poiché al momento non è possibile presumere una conclusione positiva del processo di revisione del programma greco”.
Così facendo, la BCE ha costretto le banche greche a dipendere in toto dalla liquidità di emergenza, più costosa, fornita dalla banca centrale attraverso l’ELA (Emergency Liquidity Assistance). Al tempo la misura fu interpretata da molti come un chiaro messaggio rivolto al governo di sinistra appeno insediatosi ad Atene: “capitolate o sarete costretti a pagarne le conseguenze”.
La decisione della BCE ha accelerato la fuga di capitali dal paese, costringendo la banca centrale ad incrementare enormemente il volume dei prestiti di emergenza offerti al sistema bancario greco.
A questo è seguita la decisione della BCE di stabilire un tetto ai titoli di Stato acquistabili dalle banche greche, un limite che la banca centrale non aveva imposto al precedente governo e che ha ulteriormente ridotto il margine di manovra di Syriza.
A marzo, Alexis Tsipras ha espresso tutta la sua frustrazione in una lettera aperta rivolta a Merkel e Draghi, in cui accusava la BCE di impedirgli di rispettare gli obblighi fondamentali del governo confronti dei cittadini. “Vi esorto a non permettere che un piccolo problema di flusso di cassa, e una certa “inerzia istituzionale”, si trasformino in un serio problema per la Grecia e per l’Europa”, ha scritto Tsipras. Ma il suo appello è caduto nel vuoto. Ben presto è divenuto chiaro che Draghi sarà pure stato disposto a fare “tutto il necessario” per salvare l’euro, ma non per salvare la Grecia. Al contrario, la BCE sta ora prendendo in considerazione misure per rendere ancora più difficile per le banche greche avere accesso alla liquidità di emergenza della banca centrale, strozzando ulteriormente l’economia del paese.
Sono tutti esempi di come il comportamento della BCE sia ormai del tutto ultra vires: nettamente al di là del suo mandato legale e politicamente motivato. Come scrive Jacob Funk Kirkegaard del Peterson Institute di Washington: “Nel corso della crisi la BCE si è trasformata in un attore politico a tutti gli effetti… la cui strategia è finalizzata a far sì che i politici recalcitranti dell’eurozona facciano cose che altrimenti non farebbero”.
Le minacce contro la Grecia rientrano perfettamente in questa strategia.