di Pablo Iglesias, segretario di Podemos
Uno degli ultimi dibattiti che ho condotto su “Fort Apache” – un talk show che presento dal 2013 – era dedicato allo stato dell’Unione europea. Nel mio discorso introduttivo, mi sono chiesto quali fossero le basi su cui poggia il progetto politico europeo, e ho posto la stessa domanda agli ospiti in studio. Sono molti gli elementi che si possono citare a sostegno del progetto: una storia e una cultura condivisi; interessi economici e geopolitici comuni; il desiderio di pace dopo due guerre mondiali; un modello sociale e democratico ben distinto, ecc. In tutti questi elementi c’è un fondamento di verità. Ma se separiamo gli interessi delle élite politiche ed economiche europee – i veri artefici dell’Unione – da quelli dei popoli del continente, non possiamo che concludere che solo il raggiungimento di un certo livello di benessere e di prosperità possono spiegare perché i cittadini di nazioni così diverse tra di loro possano avere interesse ad accettare i complessi meccanismi sovranazionali che contraddistinguono l’Unione europea.
Il problema è che la crisi finanziaria del 2008 e la maniera in cui questa è stata gestita dalle élite europee hanno messo in dubbio la capacità dell’Unione di continuare ad essere percepita dai suoi cittadini (in particolare da quelli della periferia) come uno spazio di benessere e di diritti sociali.
In un numero recente della New Left Review, Susan Watkins notava che alle tre asimmetrie corrosive dell’Europa di Maastricht – la relazione gerarchia tra gli Stati del centro e quelli della periferia; la natura oligarchia e tecnocratica delle istituzioni dell’Unione e la sua subordinazione geopolitica agli Stati Uniti – si è oggi aggiunta una nuova deriva tossica, a causa della crisi finanziaria. Questa nuova deriva tossica consiste nell’aumento del potere autocratico della Commissione e dell’influenza della Germania nella gestione degli affari europei. Oggi possiamo affermare che l’equilibrio franco-tedesco che è da sempre alla base del progetto europeo si è definitivamente spezzato. La crisi ucraina ha mostrato fino a che punto i rapporti europei con la Russia vengono decisi a Washington e a Berlino.
Molto è stato detto sulla necessità di rafforzare il Parlamento europeo come luogo di co-decisione. Ma se c’è qualcosa che ho imparato in questo anno da eurodeputato – in cui ho assistito allo spettacolo ignobile della nomina di Jean-Claude Juncker a presidente della Commissione europea con l’appoggio dei popolari e dei socialisti – è che il parlamento continua ad essere saldamente nelle mani di questa “grande coalizione” pro-Juncker, ed è ancora lontano dall’essere uno spazio legislativo in grado di rappresentare la volontà popolare dei cittadini europei. Emendare le direttive della Commissione va bene, ma il ruolo di un parlamento non può ridursi a questo.
Detto questo, il problema fondamentale della deriva corrosiva dell’Europa è un altro. Il punto è che le istituzioni dell’Unione hanno sempre sofferto di un serio deficit democratico, senza che questo abbia mai rappresentato una minaccia per le istituzioni in questione. Il modo in cui è stata gestita la bocciatura della cosiddetta Costituzione europea da parte dell’elettorato francese e olandese è una perfetta dimostrazione della capacità dell’Ue di aggirare i problemi sollevati da quei cittadini che votano in maniera “sbagliata”.
L’esempio più lampante del fallimento della politica post-crisi delle élite europee è il modello dell’austerità, che ha fatto saltare in aria l’idea dell’Unione come santuario di quei diritti sociali e democratici che sono alla base delle costituzioni del dopoguerra. Il fatto che il benessere e la prosperità non siano più elementi costituenti dell’Europa ha implicazioni politiche molto serie.
L’ordoliberalismo tedesco ha messo un cappio attorno al collo dei popoli europei, in particolare quelli a sud e ad est dell’Unione. Il fatto che in molti Stati membri questo progetto goda del sostegno dei principali partiti politici sta destabilizzando sempre di più i sistemi politici di questi paesi. L’esempio della Grecia è paradigmatico, ma anche in paesi come l’Irlanda, la Francia e l’Italia vediamo che la gente ha sempre meno fiducia nei partiti tradizionali.
A questo punto, le alternative sono sostanzialmente due. La prima è accettare che la sopravvivenza dell’Unione dipende dalla salvaguardia di un certo livello di benessere basato sui diritti sociali e sulle politiche redistributive. Questo vuol dire sfidare l’ortodossia dei tagli alla spesa e dell’austerità, che si sono dimostrati del tutto insufficienti a superare la crisi. Questo è essenzialmente quello che sta cercando di fare il nuovo governo greco, che si sta battendo per un’Europe sociale e multilaterale che ponga dei limiti al dogmatismo ordoliberale che ci sta conducendo alla rovina. La famiglia socialista europea, e in particolare i governi della Francia e dell’Italia, farebbero bene a prendere coscienza del fatto che se non si pongono dei limiti alla Germania e non si ribaltano le politiche di austerità, prima o poi ci troveremo a fare i conti con la seconda alternativa: il dilagare dell’antieuropeismo e della xenofobia.
Pubblicato su POLITICO Europe il 15 aprile 2015.