di Berlaymont
Impercettibilmente, qualcosa è cambiato nella vita politica italiana il 10 aprile scorso. Non si tratta di una rottura esplicitata in prima pagina dai giornali; anzi, è stata proprio l’assenza di certi titoli nella stampa che ha segnato questo passaggio d’epoca.
La pubblicazione del Def è diventata, già da alcuni anni, un appuntamento annuale importante per il paese: in questo documento, indirizzato alla Commissione europea, il governo espone dettagliatamente la politica macroeconomica e di bilancio che intende perseguire negli anni successivi, e dunque come intende rispettare le regole di governance economica dall’Unione. Per questo, rappresenta il naturale “terreno di scontro” tra governo nazionale ed Europa, e in particolar modo l’Europa delle regole di bilancio e dell’austerity. Abbiamo visto in passato governi sfruttare questo momento per riaffermare il proprio impegno europeo o per criticare il famoso tetto del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil.
Ed è precisamente questo che non è successo stavolta: l’Europa è stata sostanzialmente assente. Ad ascoltare la conferenza stampa del premier o a leggere i giornali, la pubblicazione del Def (e l’indirizzo di politica economica in esso contenuto) sembrava un argomento di politica strettamente nazionale. Questo è il risultato di una lunga evoluzione della governance dall’area euro.
In principio, il patto di stabilità era semplice, troppo semplice: sostanzialmente, il deficit doveva essere sotto il 3 per cento e basta (“drei komma null”, dicevano i tedeschi). Il più delle volte, gli Stati membri si dimenticavano di questa regola, e se ne ricordavano solo quando era troppo tardi, cioè quando veniva un anno di crescita molto bassa che allo stesso tempo richiedeva un rilancio della spesa pubblica e si traduceva in entrate più basse. Il patto era quindi percepito come “stupido” perché si manifestava sempre al momento sbagliato: quando l’economia va male, non è il momento di ridurre il disavanzo pubblico; questo lo riconoscevano anche i meno keynesiani tra i funzionari dalla Commissione. E, infatti, la Commissione si lamentava della miopia fiscale degli Stati membri, che non usavano gli anni di crescita sostenuta per mettere le finanze pubbliche in ordine.
Le riforme al patto di stabilità del 2005 e del 2011 hanno dunque rinforzato le regole con un’attenzione molto più forte alla prevenzione dei deficit eccessivi: le nuovo regole prevedono che nei tempi di crescita alta i governi si impegnino a ridurre il deficit, anche se questo è sotto al 3 per cento. L’idea è far sì che quando arriva una crisi, gli Stati membri siano in grado di rispondere con misure di rilancio dell’attività (o almeno con gli stabilizzatori automatici), senza mettere al repentaglio la sostenibilità a lungo termine delle loro finanze pubbliche (e senza sforare il 3 per cento).
Il problema, ovviamente, è che questo presuppone delle frequenti intrusioni europee nelle politiche di bilancio nazionali, il che è politicamente molto costoso. Pone inoltre la questione della credibilità delle regole di bilancio: come evitare il ritorno all’attitudine disinvolta tenuta dai governi negli anni pre-crisi? La soluzione è abbastanza scaltra. Basta spostare le regole dal livello europeo al livello nazionale: invece di esercitare una verifica ex-post dei parametri fiscali ed economici, si tratta di cambiare il modo in cui si fa la politica di bilancio negli Stati membri.
In definitiva, possiamo concludere che la vera eredità del Fiscal Compact non consiste tanto nelle norme che contiene, quanto nel fatto che richiede la loro integrazione negli ordinamenti nazionali degli Stati membri. Nel caso dell’Italia, questo è evidenziato dall’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, dalla creazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio e dai vari meccanismi di correzione automatici previsti dalla legge, che hanno profondamente modificato il quadro fiscale italiano, ossia tutto quell’insieme di regole e di procedure con le quali si produce la politica di bilancio. Tanto che, in questo campo, non è più possibile fare una distinzione tra livello nazionale e livello europeo.
E quindi la pubblicazione del Def, il momento più “europeo” che ci sia nella vita del paese, è diventato un argomento di politica interna. Se questa sia una cosa buona o meno lo lasciamo decidere al lettore…