di Luigi Pandolfi
Facciamo per un attimo finta di non sapere cosa rappresenti, sul piano politico, l’Europa di oggi. Ci fermiamo alla retorica “europeista”, al mito di un’Europa la cui costruzione unitaria sarebbe ispirata ai valori più alti della nostra civiltà. Beninteso, parliamo degli stessi valori che i “costituenti” profusero a piene mani nei primi articoli del Trattato di Maastricht, senza far caso, forse, allo stridore che gli stessi restituivano in accoppiata con lo spirito smaccatamente mercatista dell’intera architettura comunitaria. Leggiamo l’articolo 2:
La Comunità ha il compito di promuovere… uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri.
Convergenza dei risultati economici? Sviluppo equilibrato delle attività economiche? Alti livelli di occupazione? Solidarietà tra gli Stati? Verrebbe da dire: ma di che parliamo? Stando allo scenario che abbiamo di fronte, segnato da squilibri macroeconomici regionali crescenti, da livelli di disoccupazione mai così alti in Eurozona dai primi anni novanta, dall’arrogante predominio di alcuni Stati sugli altri, si possono trarre solo due conclusioni, l’una alternativa all’altra: che il progetto europeo è miseramente fallito oppure che lo stesso è una colossale presa in giro.
Il caso greco ne è la riprova più eclatante. In queste settimane si è parlato tanto della “trattativa” tra Atene e Bruxelles. Mi chiedo, e chiedo a voi che leggete: ma la Grecia è ancora in Europa? Fa parte ancora dell’eurozona? Se sì, con chi e per che cosa dovrebbe “trattare”? Perché viene tenuta sotto ricatto?
Facciamo un passo a latere. Il debito ellenico è costituito attualmente per il 70 per cento da prestiti ufficiali ricevuti da istituzioni pubbliche (60 per cento stati membri Ue-Fondo salva-Stati e 12 per cento l’Fmi), il resto è appannaggio della Bce e solo il 15 per cento è composto da titoli negoziabili sul mercato in mano a privati. Il tutto fa 317 miliardi di euro. Più che di “debito pubblico” in senso stretto, si tratta, a ben vedere, di “aiuti” che la Grecia ha ricevuto dalle stesse istituzioni europee ed altre istituzioni internazionali, nel quadro degli accordi di “salvataggio” sottoscritti dal paese a partire dal 2010. Il suo creditore, in sostanza, è la stessa Europa. Non c’entrano investitori privati, hedge fund, “fondi avvoltoio” come, ad esempio, nel caso dell’Argentina. La ragione porterebbe a concludere, pertanto, che sarebbe un “dovere” dell’Europa salvare la Grecia, impedire un suo default, evitarle un disastro umanitario. E invece no.
Da un lato si stampa moneta a volontà per rifinanziare le banche, dall’altra si tiene sulla graticola un popolo intero per pochi miliardi di euro. Ragioniamo su alcune grandezze: il quantitative easing (QE) appena lanciato prevede acquisti di titoli di Stato ed altri asset finanziari detenuti dalle banche ad un ritmo di 60 miliardi di euro al mese fino a settembre 2016 (1.140 miliardi in totale), un’operazione che segue i poderosi programmi di ricapitalizzazione bancaria (Ltro e Tltro) del 2011-2012 e 2014. Roba da due trilioni e mezzo di euro: una montagna di denaro creato dal nulla, che fa sembrare davvero un’inezia l’importo su cui la Grecia potrebbe rischiare nei prossimi giorni un default tecnico. Parliamo dei 420 milioni avuti da Atene in prestito dal Fondo monetario internazionale che arriveranno a scadenza il prossimo 9 aprile. Si tenga conto, in ogni caso, che alla Grecia servirebbero “solo” 40 miliardi di euro per rispettare tutte le scadenze sul debito da qui a gennaio dell’anno prossimo, molto meno di quanto la Bce ha iniziato ad iniettare mensilmente nel sistema col suo programma di “alleggerimento quantitativo”.
C’è una logica in tutto questo? Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo fare una premessa: nelle nostre società chi governa i flussi di denaro ha in mano la vita e la morte di milioni di esseri umani. Nel caso greco la risposta, ovviamente, non sta nei numeri. Da Atene passa il successo o la sconfitta di una partita politica che ha come posta in gioco il cambiamento dell’Europa. Riguarda tutti. Negare al nuovo governo di Alexis Tsipras la possibilità di rispettare i suoi impegni con gli elettori costituisce un monito per chiunque, da qui in avanti, pensasse di mettere in discussione la miscela di austerity e neoliberismo che sta modificando nel profondo ciò che rimane del vecchio modello sociale europeo. C’è un problema però: l’atteggiamento di Bruxelles, della Bce, di alcune cancellerie, nei confronti di Atene è incompatibile con il progetto di integrazione europea, che ha senso e valore solo in presenza di un regime di equilibrio e di solidarietà tra gli Stati che vi concorrono. Laddove uno di questi stati è costretto a “trattare” sotto ricatto con gli altri partner (e con la Bce), ad instaurarsi non è più un rapporto di collaborazione, su base paritaria, per il perseguimento di un obiettivo comune, ma un rapporto di sudditanza. Se il debito viene usato come strumento per asservire un paese membro, la Comunità non esiste più. Calcolo o miopia?