di Thomas Fazi @battleforeurope
La decisione della Bce – formalizzata il 4 febbraio – di non accettare più i titoli pubblici greci a garanzia della liquidità accordata alle banche del paese ha fatto molto discutere. Per liquidità si intendono le riserve della banca centrale: il denaro di cui le banche – ovunque, non solo in Grecia – hanno bisogno per effettuare le loro operazioni quotidiane, e che la Bce fornisce loro in cambio di “collaterale”, ossia titoli sia pubblici che privati con rating di categoria A (e già su questo ci sarebbe molto da dire). I titoli pubblici greci non soddisfano questa richiesta da vari anni ormai, ma a quei paesi che partecipano a un programma di assistenza della troika viene concessa una deroga alla regola (per maggior informazioni si veda questo articolo della settimana scorsa). La Bce ha infatti motivato la sua decisione sostenendo che “al momento non è possibile presumere una conclusione positiva del processo di revisione del programma greco”. Ed è difficile darle torto, in quanto la fuoriuscita dal programma – e dai relativi piani di austerità e di aggiustamento strutturale imposti dalla troika – è uno dei punti centrali del programma di Syriza (che in un recente discorso al parlamento greco Tsipras ha ribadito di voler rispettare). Da un punta di vista puramente formale, dunque, la decisione della Bce è tutto sommato legittima.
La mossa della banca centrale non rappresenta una minaccia immediata per le banche greche: dei 56 miliardi di euro che a dicembre 2014 queste dovevano all’Eurosistema, solo 8 miliardi erano garantiti da titoli di stato. Questo vuol dire che “di per sé, l’ammissibilità dei titoli di stato non è un grosso problema”, come ha commentato Karl Whelan. Inoltre, le quattro banche principali del paese, dopo la fuga dai depositi delle ultime settimane, hanno già accesso alla liquidità d’emergenza fornita da Francoforte tramite l’Ela (Emergency Liquidity Assistance), e l’Eurotower ha già fatto sapere che l’Ela entrerà in vigore anche per le altre banche al posto del normale prestito dell’Eurosistema. Lo stesso ministero delle finanze greco diretto da Yanis Varoufakis ha reagito con aplomb, sostenendo in un comunicato che “il sistema bancario greco rimane capitalizzato in maniera adeguata attraverso il sistema Ela”.
Il problema è un altro, piuttosto, ed è tutto politico: ossia il fatto che “la crescente dipendenza dall’Ela rende il sistema bancario greco molto vulnerabile”, scrive l’Economist, “e pone il governo greco totalmente alla mercé della Bce”, che ha una discrezionalità quasi assoluta nel decidere se continuare o meno ad autorizzare l’Ela. Quest’ultima deve essere rinnovata di volta in volta, e a maggioranza di due terzi, ogni due settimane dal Consiglio direttivo della banca centrale (la prossima riunione è il 18 febbraio, e Weidmann già ha espresso dubbi sull’opportunità di continuare a sostenere le banche greche), ed è ovvio che se la Bce dovesse decidere di chiudere anche quest’ultimo rubinetto, il sistema finanziario greco crollerebbe nel giro di pochi giorni. La minaccia – più o meno esplicita – di staccare l’Ela, rappresenta dunque uno straordinario strumento di pressione da parte della Bce nei confronti di Atene proprio nel momento in cui il governo è alle prese con un delicatissimo negoziato nei confronti dell’Eurogruppo e, paradossalmente, della stessa Bce (che con questa mossa ha anche segnalato di non gradire la proposta di “swap” avanzata da Varoufakis).
Non sarebbe la prima volta che la Bce usa l’Ela come strumento di pressione politica, in fondo: nel 2010 la banca centrale convinse l’Irlanda ad entrare in un programma della troika proprio minacciando di chiudere i rubinetti dell’Ela; e nel 2013 arrivò a staccare l’Ela alle due principali banche cipriote, dando inizio così ad una disastrosa sequenza di eventi che finì per costringere anche il governo cipriota ad affidarsi alla troika. I precedenti, insomma, non fanno ben sperare.
È questo il punto su cui si è concentrata la maggior parte dei commentatori. Come ha scritto Carlo Clericetti su Repubblica, esprimendo un consenso abbastanza diffuso, “la decisione della Bce rappresenta una pesantissima invasione di campo, un tentativo inaccettabile di condizionamento che mira ad indebolire una delle parti, quella che già di suo è la più debole”. Lo stesso Tsipras nella prima riunione del nuovo parlamento greco ha dichiarato – in un chiaro riferimento alla decisione della Bce – che “la Grecia non può essere ricattata perché la democrazia in Europa non può essere ricattata”. Secondo l’economista francese Michel Husson, la mossa della Bce si può addirittura “assimilare a un colpo di stato finanziario”:
Questa operazione di aggiramento illustra la volontà, tutta politica, di destabilizzare il governo greco, privandolo del minimo respiro che gli consenta di procedere all’attuazione del suo programma. Varoufakis ha detto di avere bisogno di sei mesi: la Bce glie li ha rifiutati… rivelando – se mai ce ne fosse stato bisogno – la sua vera natura, al servizio degli interessi della finanza.
Molto duro anche il giudizio della nota economista britannica Ann Pettifor:
Come è moto, l’obiettivo primario della Bce è quello di promuovere la stabilità dei prezzi e un tasso inflazionistico vicino al 2%. Soggetto al raggiungimento di questi obiettivi, la Bce ha inoltre il dovere di promuovere gli obiettivi dei Trattati, che includono: crescita economica equilibrata, piena occupazione, progresso sociale e solidarietà tra gli stati membri… Non solo la Bce si è dimostrata clamorosamente incapace di adempiere al suo mandato inflazionistico; adesso ha deciso anche di violare esplicitamente i Trattati europei minacciando la stabilità politica e sociale del continente e la solidarietà tra gli stati membri.
Secondo Francesco Saraceno, la decisione della Bce dimostra che “la banca è dalla parte della Germania e delle istituzioni Ue nel chiedere che Syriza si dimentichi delle sue promesse elettorali e prosegua nella rigorosa implementazione delle misure di austerità e di aggiustamento strutturale della troika”. Quello a cui stiamo assistendo, dunque, non sarebbe altro che “un brutale braccio di ferro tra democrazia e banchieri” che vede la Grecia contrapposta (da sola per il momento) a praticamente tutto l’establishment politico-finanziario europeo, come scrive James Meadway, senior economist della New Economics Foundation.
E se invece le cose non fossero così semplici? Se la decisione della Bce non fosse diretta (solo) contro la Grecia, ma fosse invece una mossa di una complessa partita? È l’ipotesi avanzata da Frances Coppola in un articolo che in questi giorni sta scatenando un accesso dibattito tra gli addetti ai lavori. Coppola ipotizza che la mossa della banca centrale non abbia lo scopo di fare pressione solo sulla Grecia, ma anche – e forse soprattutto – sulla Germania (il giorno seguente doveva svolgersi il colloquio tra il ministro tedesco Schäuble e Varoufakis). Come? Mettendo la Grecia sull’orlo del precipizio – ma senza avere realmente l’intenzione di spingerla di sotto –, nel tentativo di costringere la Germania e gli altri membri dell’Eurogruppo a raggiungere al più presto un accordo politico se vogliono evitare che la Grecia cada dal precipizio, trascinando giù con sé anche il resto dell’eurozona. Secondo Coppola, infatti, è molto difficile immaginare che la Bce arrivi veramente a terminare l’Ela, poiché questo renderebbe la banca centrale direttamente responsabile, con ogni probabilità, della fuoriuscita della Grecia dall’euro, distruggendo la credibilità della banca centrale in quanto garante della stabilità finanziaria e dell’integrità dell’unione monetaria. Con questa mossa, invece, Draghi avrebbe furbescamente passato la patata bollente nelle mani della Merkel (immaginando, secondo l’interpretazione alternativa degli eventi fornita da Coppola, che alla fine questa si piegherà).
Varoufakis, secondo Coppola, sarebbe perfettamente consapevole del gioco a cui sta giocando Draghi. E a dimostrazione di ciò la giornalista britannica cita un tweet di Varoufakis di sei mesi fa in cui l’economista, rispondendo a qualcuno che gli chiedeva cosa avrebbe consigliato di fare alla Grecia se un giorno questa si fosse trovata nella stessa posizione di Cipro (minaccia di cessione dell’Ela), disse che il governo avrebbe fatto bene a chiamare il bluff della banca centrale: “Andate avanti se avete il coraggio!”.
Certo, è una strategia molto pericolosa quella della Bce, anche perché avrà quasi sicuramente l’effetto di accelerare la fuga di capitali dalla Grecia e la speculazione sui titoli di stato greci. La situazione, insomma, potrebbe rapidamente sfuggire di mano, a prescindere da quelle che sono le intenzioni della Bce. Ma anche questo potrebbe essere voluto.
Per capire perché bisogna ricorrere alla cosiddetta “teoria dei giochi”: una scienza matematica che studia le situazioni di conflitto partendo dall’analisi delle scelte decisionali di individui che si trovano in situazioni di interazione con altri soggetti rivali, tali per cui le decisioni di uno possono influire sui risultati conseguibili dagli altri secondo un meccanismo di retroazione, arrivando a soluzioni competitive o cooperative. Coppola cita uno scritto dell’economista francese Jacques Sapir dove si ricorda che Varoufakis è un fine intenditore di questa teoria (ha scritto ben due libri sul tema).
Secondo Sapir, il negoziato Grecia-Bce-Eurogruppo al momento sta seguendo una dinamica da “dilemma del prigioniero”, il più famoso dei problemi della teoria dei giochi, in cui sostanzialmente il risultato (in termini di costi e benefici) per un decisore non dipende solo da ciò che sceglie quel decisore ma anche da ciò che scelgono gli altri, il che lo porta a cercare di prevedere quello che faranno gli altri, sapendo che anch’essi faranno altrettanto. È un esperimento teso a dimostrare come in certi casi individui puramente “razionali” possono scegliere di non cooperare anche se questo sarebbe nel migliore interesse di tutti. Sapir fa inoltre notare che il dilemma del prigioniero può facilmente degenerare in quello che, sempre nella teoria dei giochi, è noto come “gioco del coniglio”: un esempio di gioco in cui sono ammesse solo due soluzioni: la vittoria assoluta di un soggetto sugli altri o la sconfitta (o peggio) di tutti i soggetti coinvolti. L’esemplificazione classica è basata sulla sfida del film Gioventù bruciata in cui due ragazzi fanno una corsa automobilistica lanciando simultaneamente le auto verso un dirupo. Se entrambi sterzano prima di arrivarvi, faranno una magra figura con i pari; se uno sterza e l’altro continua per un tratto di strada maggiore, il primo farà la figura del coniglio, mentre il secondo guadagnerà il rispetto dei pari. Se entrambi continuano sulla strada, moriranno.
Secondo Sapir, il braccio di ferro in corso tra Germania e Grecia ha tutte le caratteristiche di un gioco del coniglio, in cui sia la Merkel che Tsipras hanno troppo da perdere in termini di consenso interno per cercare una soluzione cooperativa, e dunque manterranno entrambi il piede sull’acceleratore nella speranza che l’altro sterzi per primo. In questa partita, Varoufakis, con l’appoggio (consapevole?) della Bce – e questo ci riporta alla recente decisione della banca centrale – avrebbe scelto di ricorrere alla cosiddetta strategia della “debolezza coercitiva”, in un cui un soggetto sceglie volontariamente di mettersi in una condizione di debolezza per aumentare il suo potere contrattuale. Questo, sostiene Sapir, spiegherebbe sia la decisione del governo greco di mettersi deliberatamente sull’orlo del precipizio (rifiutando l’ultima trance della troika) che l’ulteriore “spintarella” di Draghi. Una strategia che però, visto l’avversario, rischia di non funzionare.
Anche a causa della strategia fallimentare perseguita da Syriza e in particolare da Varoufakis, sostiene l’economista Anatole Kaletsky. La teoria dei giochi, dice Kaletsky, insegna che i negoziati che vanno a buon fine solitamente sono quelli in cui le parti in causa si concentrano sul raggiungimento dei loro obiettivi primari (quelli su cui non possono cedere), scendendo a compromessi sui loro obiettivi secondari. Nel caso specifico, agli elettori di Syriza interessa più l’allentamento delle misure di austerità (obiettivo primario) che il valore nominale del debito pubblico (obiettivo secondario); mentre agli elettori della Merkel interessa più evitare un taglio del debito (obiettivo primario) che vedere la Grecia implementare a tutti i costi le riforme strutturali (obiettivo secondario). Per ottenere il suo obiettivo primario, Varoufakis aveva due strategie a disposizione: insistere fino alla fine sul “principio sacrosanto” del taglio del debito per poi cedere all’ultimo momento in cambio di una serie di concessioni in fatto di austerità e riforme strutturali – la stessa strategia diversiva con cui Draghi ha vinto la sua battaglia sul quantitative easing, cedendo solo all’ultimo su un punto che il presidente della Bce ha sempre considerato economicamente irrilevante ma che per la Germania era un confine che non andava assolutamente superato, la mutualizzazione dei rischi, dando alla Merkel l’illusione di aver vinto un’importante battaglia – o dire fin da subito che il taglio del debito era fuori questione, dimostrando che era possibile alleviare le misure di austerità senza intaccare di un centesimo il valore nominale debito.
La strategia passiva-aggressiva di Varoufakis si è invece dimostrata confusa e, in ultima analisi, autolesionista, secondo Kaletsky: ha ceduto quasi subito sul taglio del debito, si è rifiutato di negoziare con la troika (nonostante le tre istituzioni che la compongono siano più sensibili alle richieste greche della Germania) e si è autoimposto un ultimatum stringente rifiutando di chiedere un’estensione del programma, mettendosi alla mercé della Bce. Col risultato che alla fine, presagisce Kaletsky, la Grecia sarà costretta a capitolare su tutti i fronti. Pena l’uscita dall’euro.
Staremo a vedere. Un punto che Kaletsky ignora, però, è che questa è una partita globale e non solo europea: da un lato c’è il presidente statunitense Barack Obama, che nelle ultime settimane si è schierato in maniera abbastanza esplicita a favore delle richieste della Grecia per una cambio radicale di politica economica (un chiaro segnale che Washington sta perdendo la pazienza con la strategia di contrazione fiscale dell’eurozona, che sta deprimendo la domanda a livello globale e destabilizzando l’Unione europea), e che proprio in questi giorni ha ribadito alla Merkel che si aspetta che l’Europa e l’Fmi “lavorino con il nuovo governo greco per trovare un modo di restituire alla Grecia una crescita sostenibile all’interno dell’eurozona”; dall’altro ci sono i rapporti economici della Grecia con Russia e Cina, in forte sviluppo, a cui il paese ellenico guarda come punti di ancoraggio nel caso di un’ipotetica uscita dall’euro. Senza contare che tutto questo avviene in un contesto di fortissime tensioni tra Occidente e Russia. Una partita molto complessa insomma, che ci riguarda tutti. E in cui rischiamo di perdere tutti.