Forse dietro c’è stato un piano, una strategia, per i negoziati sul nuovo Patto di stabilità che non è stata capita né in Italia né a Bruxelles dai partner dell’Unione, e in questo caso va bene, anche noi facciamo parte della schiera di quelli che non hanno capito la grade innovazione portata dall’Itala nell’Ue.
Stando però a quel che possiamo vedere il prossimo anno, dopo questo primo speso a fare conoscenza tra il governo di Giorgia Meloni, composto da numerose personalità che erano sconosciute a Bruxelles, i ventisei partner e le istituzioni dell’Unione, il prossimo anno si presenta difficile per l’Italia sui tavoli del Belgio.
La questione che resta incomprensibile ai più è quella del Mes, il meccanismo salvastati. Il governo italiano, a suo tempo guidato da Giuseppe Conte, ne firmò il nuovo statuto, nei mesi successivi i diciannove partner dell’euro lo hanno approvato, l’Italia, restata ultima, ha detto “no”, con un chiaro voto parlamentare. Questa approvazione faceva parte, aveva annunciato la premier, di una “logica di trattativa a pacchetto”, che comprendeva anche la riforma del Patto di stabilità e crescita. E qui non si capisce cosa sia successo, dopo che Francia e Germania hanno trovato una formulazione che poi è andata bene a tutti, Italia compresa, sembrava che il pacchetto fosse chiuso, e che dunque il Mes potesse passare. In vece no, è stato scartato un po’ prima di Natale e Roma si è chiamata, a quanto si dichiara, definitivamente, fuori dalla possibilità di usare uno strumento utile in caso di crisi finanziaria, o di banche. Perché il Mes non va usato per forza: senza il voto dell’Italia non può partire per nessuno, ma se fosse entrato in vigore, solo chi avesse voluto utilizzarlo avrebbe avuto a che farci, gli altri no.
La maggioranza al governo in Italia, unica tra le 20 dei gruppo dell’euro, ha però capito che il Mes è una fregatura per i suoi cittadini, e dunque ha l’ha fermato. Non è stata una mossa che è piaciuta ai partner, che pure aveva lavorato a stilare un Patto di Stabilità che l’Italia potesse accettare, così come è stato. Ora forse nel 2024 i 19 andranno da soli, afferma qualcuno. Se accadesse sarebbe un’umiliazione notevole per l’Italia, che uscirebbe dal gruppo guida dell’Unione, quello che più avanza, tra mille difficoltà, verso un’integrazione finanziaria più profonda e utile. Noi resteremmo fuori, e indietro. E con una credibilità messa in forte discussione. E sperando che un’eventuale crisi di una banca europea non coinvolga una banca italiana, che, a differenza di quella, sarebbe senza paracadute.
Nel 2024 prenderà sempre più corpo anche la questione del Pnrr. Fino ad oggi il ministro Raffele Fitto è stato bravo a negoziare le varie rate a Bruxelles. Piano rivisto, risistemato, approvato e soldi che arrivano. Ora però la questione esce dai negoziati a Bruxelles e passa nella pubblica amministrazione italiana che deve saper spendere quelle risorse. E qui secondo molti arriveranno i problemi veri, perché fino ad ora è stato speso, si calcola, molto poco, troppo poco. Dato che il piano era stato pensato in particolare per l’Italia, che è il Paese che ha preso più risorse di tutti, perché è quello più in difficoltà di tutti, tra le grandi economie, se non riuscissimo a spendere tutto, ad approfittare di un’occasione (sulla quale si regge gran parte del nostro Pil dei prossimi anni) più unica che rara, questa diventerebbe di certo irripetibile, diventerebbe impossibile pensare a nuovi “bond europei” di cui poter approfittare in futuro.
Poi ci sono le elezioni europee e la nomina della nuova Commissione. In Italia si fa gran parlare della crescita che avrà Fratelli d’Italia, il che è probabilmente un’aspettativa corretta, cui corrisponderà l’atteso calo di Lega e Forza Italia. Il partito guidato da Antonio Tajani però, per quanto possa restringersi, resterà parte del gruppo che potrebbe restare il più grande nel Parlamento, il Partito popolare europeo, e che quindi avrà un peso determinante nelle scelte della futura maggioranza. FdI e Lega invece, anche cambiando il loro reciproco rapporto quantitativo, resteranno in gruppi che, nonostante recenti tentativi di allargamento a destra della maggioranza rapidamente falliti, pur se in qualche crescita percentuale, resteranno ai margine del Parlamento, scarsamente o per nulla influenti. Il Pd, il cui esito elettorale appare incerto al momento, resterà comunque anch’esso parte del Partito dei socialisti europei, attuale secondo gruppo che aspira a diventare il primo, del Parlamento, e che comunque sarà anch’esso un elemento di peso nella future maggioranze. Dunque, anche questa volta, Ppe e Pse con grande probabilità si troveranno ad essere i pilastri attorno ai quali si muoverà il Parlamento, con Fi e Pd divisi in patria e spesso uniti nell’Ue.
Giorgia Meloni poi dovrà dare la sua opinione sul prossimo presidente della Commissione europea. Partita ancora aperta, ma con un front runner evidente, Ursula von der Leyen, che sta facendo di tutto per non dispiacere nessuno dei grandi Paesi, Italia compresa. Forse a Meloni dunque, per non trovarsi isolata, toccherà sostenere la conferma della donna politica popolare tedesca.
Non ci sarà una rivoluzione a Bruxelles guidata dall’Italia insomma, che forse potrebbe ragionare sul trovare una posizione meno scomoda e più fruttuosa per i propri interessi. Sempre sperando che nel frattempo nessuna banca vada a gambe all’aria.