Giorgio Napolitano si è dimesso stamattina e ha già lasciato il Quirinale. Lo aveva annunciato già nel discorso del suo secondo insediamento da presidente della Repubblica – prima rielezione nella storia italiana – e, come promesso, ha atteso la chiusura del semestre europeo a guida italiana, ufficialmente concluso ieri dal discorso del premier Matteo Renzi a Strasburgo, prima di firmare le dimissioni.
Durante i suoi nove anni di mandato, iniziati nel 2006, Napolitano ha guidato il Quirinale in una fase di transizione molto importante della politica italiana: dal berlusconismo al renzismo, passando per Mario Monti ed Enrico Letta.
Nel 2007, Napolitano fu obbligato per la prima volta a sciogliere le Camere, per l’impossibilità di formare una nuova maggioranza in seguito alla caduta del governo di Romano Prodi. Nelle successive elezioni, le urne assegnarono a Silvio Berlusconi la maggioranza, e Napolitano gli affidò l’incarico per formare il IV esecutivo del Cavaliere.
Nel 2011 Napolitano diventò per molti “Re Giorgio”. Ebbe infatti un ruolo decisivo nel passaggio da Berlusconi a Mario Monti alla guida di Palazzo Chigi. Il primo fu costretto a lasciare per le pressioni dei mercati – con lo spread tra Btp e Bund tedeschi a livelli altissimi e la credibilità finanziaria del Paese sotto i tacchi – e delle istituzioni europee, Bce in testa, che chiedevano interventi massicci sui conti pubblici per arginare la crisi. Napolitano convocò Monti al Quirinale e gli affidò il compito di eseguire le cure da cavallo prescritte dall’Europa. Nacque così un esecutivo tecnico che per molti era il “governo del presidente”.
A dicembre del 2012, Napolitano firmò per la seconda volta un decreto di scioglimento delle Camere, dopo che la maggioranza trasversale che sosteneva Monti si incrinò (Berlusconi tolse la fiducia). Dalle urne, nel febbraio 2013, il risultato più eclatante fu il successo del Movimento 5 stelle, affermatosi come seconda forza del Paese.
I nuovi equilibri impedirono di trovare un accordo per sostituire Napolitano, arrivato a fine mandato. Impallinato Romano Prodi dai 101 franchi tiratori del Pd – e con lui il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani, incapace tanto di tenere unito il Pd, quanto di trovare attorno a sé una maggioranza di governo – le forze politiche che avevano sostenuto il governo Monti (Pd, Pdl e i vari gruppi centristi) chiesero a Napolitano di dare la disponibilità per un secondo mandato al Quirinale. Il presidente accettò “per senso di responsabilità”, chiedendo però al Parlamento di realizzare in tempi rapidi un percorso di riforme istituzionali, e annunciando che, non appena questo si fosse concluso, avrebbe lasciato l’incarico.
Vista l’impossibilità di creare una maggioranza a sostegno di Bersani per la guida di Palazzo Chigi, il rieletto capo dello Stato affidò l’incarico a Enrico Letta, attorno al quale si formò la stessa maggioranza che aveva sostenuto Monti e rieletto Napolitano.
Fu un governo di breve durata, perché a febbraio del 2014 Matteo Renzi, divenuto il nuovo segretario del Pd, di fatto costrinse Letta alle dimissioni e ottenne da Napolitano l’incarico per un nuovo governo. L’ex rottamatore approdò quindi a Palazzo Chigi, godendo del pieno sostegno del capo dello Stato, il quale non manca di sottolineare, in più occasioni e fino a pochi giorni fa, l’importanza delle riforme avviate dal nuovo esecutivo. Riforme che, sebbene non ancora approvate dal Parlamento, sono ormai in dirittura d’arrivo. Per questo Napolitano ha deciso di lasciare, e già da domani potrebbe insediarsi come senatore a vita, in modo da votare egli stesso per l’approvazione di quelle riforme istituzionali per le quali ha tanto premuto.
Cosa succede adesso? Ecco un quadro delle regole nella partita per il Quirinale, e i possibili scenari che si aprono.
Le regole
L’elezione del presidente della repubblica sono regolate dal Titolo II della Seconda parte della Costituzione. Sarà il Parlamento in seduta comune, a cui si aggiungono i delegati regionali (tre per ogni Regione, tranne la Val d’Aosta a cui ne spetta solo uno, i quali vengono designati da ciascun Consiglio regionale), a dover eleggere il nuovo capo dello Stato. Si vota a scrutinio segreto. Per i primi tre scrutini è prevista una maggioranza dei 2/3 dei votanti, mentre dal quarto scrutinio la soglia si abbassa poiché è sufficiente la maggioranza assoluta.
I Quorum
Tra deputati, senatori (inclusi i senatori a vita) e delegati regionali, il numero di ‘grandi elettori’ è di 1008. Dunque la soglia minima di voti necessari a eleggere il presidente è 672 per i primi 3 scrutini, e si abbassa a 505 dalla quarta votazione in poi.
Gli scenari
Pochi giorni fa, il presidente del Consiglio Matteo Renzi – che sta conducendo le trattative con le altre forze politiche in qualità di segretario del Pd – ha escluso la possibilità che il nuovo presidente venga eletto “al primo colpo”, quindi con la soglia dei 2/3. Dunque appare certo che si dovrà attendere almeno la quarta votazione. Anzi, lo stesso Renzi, nel corso della trasmissione televisiva ‘Otto e mezzo’ ha lanciato “una scommessa: lo eleggeremo alla quarta votazione”. Segno che un accordo lo ha già raggiunto ed è sicuro che regga. Il suo principale interlocutore, in virtù del numero di grandi elettori su cui può contare Forza Italia, è Silvio Berlusconi. Il Pd da solo conta 450 elettori. Con il resto della maggioranza più Fi si arriva circa a 700. Oltre quota 672 e ben al sopra di quota 505. Tuttavia, rimane da verificare l’entità dei dissidenti, tanto nel Partito democratico quanto in Forza Italia. Renzi sa che inevitabilmente ci saranno dei franchi tiratori, per questo tiene la bocca cucita sul nome intorno al quale c’è un accordo. Infatti ha dichiarato che “non ci mettiamo sui primi tre voti con un nome a indebolirlo e impallinarlo”. La convinzione che invece il quarto voto sarà quello buono per inviare un nuovo inquilino al Quirinale, assicurano dalla maggioranza Pd, deriva dal fatto che “alla fine saranno meno di un centinaio” i democratici che non seguiranno le indicazioni del segretario, e per quanto riguarda Forza Italia, i dissidenti rappresentati dall’onorevole Raffaele Fitto sono una trentina, consapevoli di poter arrivare al massimo a 50. Dunque, questi 150 disidenti dei principali partiti non basterebbero a far saltare un accardo tra Renzi e Berlusconi.
La tempistica
Una volta formalizzate le dimissioni da Napolitano, la presidente della Camera, Laura Boldrini, deve convocare il Parlamento in seduta comune entro 15 giorni per l’elezione del nuovo capo dello Stato, ed ha stabilito di farlo per il 29 gennaio alle 15, sfruttando per intero il periodo, in modo da dare al Senato il tempo di approvare la nuova legge elettorale, e alla Camera di arrivare alla votazione finale sulla riforma costituzionale. Di conseguenza, se Renzi dovesse vincere la sua scommessa sul quarto scrutinio, il Quirinale potrebbe avere un nuovo inquilino entro la fine del mese. Se invece la fronda delle opposizioni, insieme con i dissidenti democratici e forzisti, dovesse far saltare i piani, il premier sarà costretto a cercare un nuovo accordo, questa volta con il Movimento 5 stelle. A quel punto potrebbe servire molto più tempo.
I requisiti del presidente
Può essere eletto presidente della Repubblica qualunque cittadino che abbia compiuto i 50 anni e goda dei diritti civili e politici.
Le funzioni
Tra le funzioni principali, il presidente della Repubblica è garante della Costituzione e dell’unità nazionale. Presiede il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio supremo di difesa. Può sciogliere le camere e indire nuove elezioni prima della scadenza naturale della legislatura (prerogativa che non può essere esercitata durante l’ultimo semestre del mandato presidenziale). Autorizza la presentazione al Parlamento dei disegni di legge di iniziativa governativa, promulga le leggi e emana i decreti.
La durata
Il presidente resta in carica per 7 anni e può essere rieletto una sola volta. Anche se la rielezione, prima di Napolitano, è una eventualità che non si era mai verificata. Al contrario, sono 4 i predecessori di Napolitano che hanno lasciato l’incarico in anticipo: Enrico De Nicola, Antonio Segni, Giovanni Leone e Francesco Cossiga. A questi si aggiungono Sandro Pertini, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, i quali però si sono dimessi pochi giorni prima della scadenza naturale, e solo per accelerare i tempi di insediamento dei loro successori al Quirinale, che nel frattempo erano già stati eletti.