‘Chi ha perduto la Cina?’ era un interrogativo ricorrente, retorico e al tempo stesso politico, nell’America degli anni Cinquanta. La Cina aveva infatti repentinamente cambiato regime, con il successo dei comunisti di Mao che avevano costretto il governo nazionalista guidato da Chiang Kai-shek a cercare rifugio nella vicina isola di Taiwan. Gli USA, anche se per qualche decennio continuarono a riconoscere le autorità alleate di Taipei e non quelle di Pechino come rappresentative del popolo cinese, avvertirono appieno il colpo di una perdita strategica probabilmente ineluttabile a dispetto degli sforzi compiuti per evitarla. Ci volle non meno del cambio di una generazione di leader politici (simboleggiato dall’avvicendarsi di ben cinque Amministrazioni presidenziali: da Truman a Nixon) per venire a capo delle sue conseguenze.
‘Chi ha perduto la Turchia?’ è un interrogativo che appare naturale porsi oggi, dinanzi alle immagini drammatiche dell’assedio portato dalle milizie islamiste alla cittadella curda di Kobane, sotto lo sguardo all’apparenza indifferente, e di certo inerte delle truppe turche schierate a breve distanza, a presidio del confine tra Siria e Turchia.
Come spesso accade, la risposta a questo tipo d’interrogativi è complessa e chi scrive non ha certo la presunzione di esserne il depositario. In buona misura, tuttavia, l’ambivalenza turca nei riguardi della macabra avanzata degli estremisti islamici si spiega con l’evoluzione della politica estera di Ankara.
Ovvero, uscendo per un istante dal campo neutro delle definizioni asettiche, con il suo fallimento.
Come definire altrimenti i risultati conseguiti da una politica di relazioni esterne che si era prefissa (per bocca di Davutoglu, all’epoca consigliere per gli affari internazionali di Erdogan) il traguardo di ‘zero problemi coi vicini’ e si ritrova oggi con l’intero vicinato in subbuglio, e come se ciò non bastasse è alle prese con il cronico fermento della minoranza curda, anche all’interno della Turchia stessa?
L’autore di queste righe è fieramente avverso all’idea che fluidità e complessità delle relazioni internazionali possano essere costrette nel binomio successo-fallimento. Tuttavia, il caso della Turchia giustifica un’eccezione: troppi elementi si accumulano sulla bilancia facendola pendere dal lato negativo.
Eccone un elenco sommario, per forza di cose superficiale ed approssimativo. L’approccio alle rivoluzioni nel mondo arabo, innanzitutto: a cui Ankara aveva dapprima guardato con un misto di scetticismo e quel che gli anglosassoni direbbero ‘benign neglect’, per poi tramutarsi, come spesso accade ai neofiti, nel paladino più accanito dell’effimera stagione delle ‘primavere’. L’Egitto: nel quale Ankara aveva salutato l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani come l’inizio di un processo di ridefinizione dei termini d’ingaggio tra sfera civile, politica e religiosa in cui la Turchia poteva fungere da modello, salvo trovarsi spiazzata dalla contro-rivoluzione dei militari e dal sostanziale benestare della comunità internazionale (Occidente in testa) all’avvento di un nuovo uomo forte nella persona del generale Al-Sisi. Israele: un tempo contraente fidato di un’alleanza solida quanto pragmatica (con la benedizione di Washington), oggi divenuto sparring partner di aspri confronti dialettici (come quello con Erdogan che qualche anno fa fece perdere le staffe persino a Peres nella cornice ovattata di Davos) e diplomatici (la richiesta turca, ad oggi non soddisfatta appieno, d’indennizzo per l’assalto della nave Mavi Marmara ad opera delle forze speciali israeliane). Senza dimenticare la madre di tutti i fallimenti: ovvero la Siria, in cui il governo turco, dopo essersi proposto come mediatore ai primi accenni del divampare della crisi, ha abbracciato la causa del ‘regime change’ con tanto zelo da subordinare ad esso l’adesione alle richieste USA di collaborazione nella lotta all’estremismo islamico dilagante – e persino gli USA appaiono esitanti a prendere in considerazione questo ‘do ut des’.
Non è frequente rinvenire esempi di altri Paesi che, a dispetto dei vantaggi innegabili offerti da una centralità che è geografica, politica, economica e anche culturale, si trovino al centro o sull’orlo di tanti conflitti; riuscendo perdipiù a capitare dal lato debole di buona parte di essi.
Consolazione relativa, ed invero abbastanza magra, per chi trova da ridire sulle politiche praticate dall’Unione Europea nel suo vicinato: l’esempio della Turchia dimostra che è pur sempre possibile fare di peggio.
In ogni caso, per tornare all’interrogativo iniziale: chi ha perduto la Turchia? La risposta più onesta è, probabilmente: nessuno. O meglio: forse è la Turchia (come del resto la Cina mezzo secolo addietro) ad avere smarrito se stessa, dapprima ponendo alla propria politica estera una meta difficilmente raggiungibile (come quella di azzerare i problemi alle proprie frontiere: la formulazione di un auspicio velleitario piuttosto che l’elaborazione di un obiettivo compatibile con il perseguimento dei propri interessi strategici); e poi imbarcandola in un’avventura – quella di alfiere dei cambiamenti nel mondo arabo – rispetto alla quale la Turchia (come del resto qualunque altro player) era decisamente impreparata.
Alle radici dei fallimenti turchi quindi si ritrova anche un principio fondante di qualsiasi strategia di relazioni internazionali: in politica estera (così come del resto nella politica in generale) i fini vanno doverosamente commisurati ai mezzi, ovvero alle capacità disponibili; reciprocamente, i mezzi vanno calibrati tenendo conto dei fini che ci si è dati.
Ignorare questa esigenza può essere giustificato dall’ambizione personale, o da una visione politica ispirata a ideali più alti e nobili. E tuttavia può costare caro, molto caro: per averne un’idea, basta guardare in direzione di Ankara – o di Kobane.