Uno stanco addio, anche piuttosto triste, da un uomo che ha sostanzialmente fallito il suo mandato, dopo dieci anni alla guida della Commissione europea, ma che non lo riconosce: questa e’ stata, ieri a Bruxelles, l’ultima apparizione in sala stampa dopo l’ultima riunione con i suoi commissari, del presidente Jose’ Manuel Barroso. Un lungo addio, visto che ha ripetuto in gran parte lo stesso discorso che aveva gia’ fatto la settimana scorsa nel suo ultimo intervento di fronte alla plenaria del Parlamento europeo, per l’occasione semi deserto, e nella conferenza stampa al termine del suo ultimo Consiglio europeo, venerdì sera. Barroso dice di aver dovuto attraversare al timone della Commissione un periodo difficile, la crisi economica piu’ grave vissuta dall’Europa fin dall’inizio dell’avventura comunitaria, negli anni ’50 dello scorso secolo. E’ vero, ma sulle sue spalle pesa la responsabilita’ di non aver evitato che quella crisi assumesse una dimensione politica, fino a diventare una vera e propria crisi di legittimazione democratica per l’Ue. Barroso afferma che le istituzioni dell’Unione, colte di sorpresa dal collasso del sistema finanziario provocato dal crollo dei ‘subprime’americani, hanno accusato il colpo perche’ erano impreparate, ma che questo e’ servito a riformarle e a rafforzare i meccanismi decisionali, e che lascia dunque una Commissione più forte di quella che ha trovato. Ma nel frattempo l’Ue, e soprattutto il sistema euro, hanno perso l’appoggio delle opinioni pubbliche, perché le sue istituzioni che hanno gestito le risposte alla crisi – il Consiglio europeo, l’Eurogruppo e la stessa Commissione – hanno perseguito e imposto come obiettivo unico il ritorno della fiducia sui mercati, ritenendo che questo fosse possibile solo attraverso le politiche d’austerità e taglio drastico dei deficit pubblici. Barroso ha pienamente sostenuto e applicato questa strategia, considerata la sola possibile dalla Germania. Ma la Commissione non e’ la Germania, e suo dovere sarebbe stato perseguire l’interesse generale dell’Europa e dei suoi cittadini.
Barroso dice di avere mantenuto sempre, durante la fase piu’ acuta della crisi, la barra dritta sulla solidarieta’ e il sostegno alla Grecia, mentre tanti (economisti, politici, intellettuali) ne predicevano l’ineluttabile uscita dall’euro, e c’erano Stati membri che volevano abbandonarla al suo destino. Sottolinea che, nonostante la durissima cura di austerità a cui è stata sottoposta, la popolazione greca resta nella sua grande maggioranza favorevole all’euro. Ricorda, inoltre, che nel 2011, se Atene fosse uscita dall’euro, sarebbero presto caduti anche gli altri paesi sotto l’attacco dei mercati: l’Irlanda, il Portogallo, anche la Spagna, rischiava anche l’Italia, forse addirittura la Francia. Anche questo è vero, ma la solidarietà data da Germania, Olanda e Finlandia, a partire dal maggio 2010 e dopo mesi di tergiversazioni, alla Grecia e poi agli altri paesi sotto l’attacco dei mercati, è stata pagata a caro prezzo: con il rafforzamento in senso ultrarigorista del Patto di Stabilità, l’accettazione del Fiscal Compact, e praticamente la consegna del timone della barca al governo tedesco sul mare in tempesta. E l’Eurozona è finita sugli scogli. La ricetta tedesca, applicata con zelo dalla Commissione, era semplice: bisogna tagliare i deficit, puntare a tappe forzate al pareggio di bilancio, in modo da rendere sostenibile il debito pubblico, soprattuto nei paesi più indebitati. Così, secondo questa logica, alla fine ci saranno le risorse per far ripartire la crescita senza fare nuovi debiti. Barroso lo aveva detto con orgoglio, parlando a Strasburgo il 21 ottobre: I deficit pubblici sono adesso in media nell’Eurozona al 2,5% del Pil, dopo essere aver superato il 6% nel 2009. E’ molto meno degli Stati Uniti o del Giappone; quindi, in termini di stabilità, stiamo meglio di prima, aveva aggiunto. In realtà, non solo la ricetta non ha funzionato, ma è stata controproducente: il debito pubblico medio dell’Eurozona è aumentato invece di diminuire, passando dal 66% del 2007 (prima della crisi) al 93% nel 2013 e viaggia oggi attorno al 95%. Colpa della mancata crescita, dovuta in gran parte proprio al taglio degli investimenti pubblici in tempi di crisi. Barroso, tuttavia, tutto questo non lo vede. Non ha citato le cifre del debito, né quelle della crescita asfittica, né ha menzionato la disoccupazione; non ha aggiunto, nel paragone fra Ue e Usa e Giappone sulla stabilità, che americani e giapponesi sono fuori dalla crisi, mente l’Europa, minacciata ora anche dallo spettro della deflazione, vi è rimasta invischiata.
Barroso rivendica di aver sempre detto che la crescita era importante, tanto quanto la stabilità. Ma sono solo parole, nei fatti la sua Commissione ha applicato sempre e solo la logica dei creditori, le formule del rigore dei conti, le politiche d’austerità. Barroso sembra negare tutto, non si rimprovera niente; anche se almeno ieri, diversamente che negli altri suoi ultimi discorsi, ha riconosciuto: Non tutta la nostra azione è stata perfetta, e ha pronunciato per due volte la parola rammarico (I regret). Mi rammarico del fatto che, anche a causa del meccanismo decisionale molto complesso dell’Ue, non è stato sempre possibile agire in modo abbastanza rapido. Mi rammarico del fatto che c’è voluto tempo per mobilitare abbastanza solidarietà quando la solidarietà era più che mai necessaria. Barroso è andato anche oltre, a modo suo, quando ha espresso preoccupazione per l’enorme distanza e sfiducia che si è creata fra i cittadini e l’establishment europeo e nazionale; per il fatto che i cittadini colpiti dalla crisi sono facile preda del populismo e dell’intolleranza. Un passo avanti rispetto al discorso di Strasburgo, quando aveva negato qualunque responsabilità per l’ondata montante di nazionalismo, estremismo, populismo e antieuropeismo in Europa (come può essere colpa nostra, aveva detto insostanza, quando movimenti simili esistono anche fuori dall’Ue, in Svizzera, in Svezia o negli Usa? ). Il presidente uscente ha citato anche, en passant la questione della legittimità democratica, senza dire alcunchè di significativo al riguardo. Infine, con uno sforzo supremo, Barroso è riuscito a citare la questione sociale, ma sempre a modo suo: spiegando che c’è la percezione in molte parti d’Europa che ci sia un problema di giustizia a causa dei sacrifici che alcuni dei nostri paesi hanno dovuto sopportare. E dunque, ha aggiunto, senza affrontare coraggiosamente questa questione dell’ineguaglianza, rischiamo di aggravare la percezione dell’Unione europea. E’ chiaro che per lui il problema principale da risolvere è la percezione che i cittadini hanno dell’Ue, e non l’ingiustizia sociale che l’Ue ha contribuito a creare con le sue politiche economiche sbagliate. Le sue ultime parole in pubblico da presidente della Commissione le ha pronunciate leggendo una poesia in portoghese di Miguel Torga: Ricomincia, se puoi, senza ansia e senza fretta, e i passi che fai in questa strada dura del futuro, falli in libertà, non riposare fino a che non arrivi…
Lorenzo Consoli per Askanews