I flussi di investimento sono da sempre un ottimo indicatore di come cambiano i rapporta di forza economici a livello globale. E negli ultimi anni, dietro le quinte della crisi europea, questi rapporti hanno cominciato a subire una trasformazione epocale. Tra il 2010 e il 2012, nel pieno della crisi dei debiti sovrani, mentre gli investitori statunitensi scappavano dall’Europa, i cinesi si muovevano nella direzione opposta, investendo enormi capitali nei paesi più colpiti dalla crisi – Italia in primis. In soli due anni, l’ammontare degli investimenti cinesi nell’Ue è passato da poco più di 6 miliardi di euro a quasi 27 miliardi di euro, di cui 4 miliardi solo in Italia. Nelle mira espansionistiche del Dragone soprattutto infrastrutture ed energia ma anche beni di lusso.
In Italia (che quest’anno è il paese europeo che ha assorbito il maggior numero di investimenti cinesi), la State Grid Corporation of China ha già acquisito il 35% di Cdp Rieti (pari a due miliardi di euro), controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, che a sua volta ha il 30% di Snam, il gruppo dei gas e dei gasdotti, e il 30% di Terna, l’operatore delle linee elettriche. A cui si aggiungono il recente passaggio del 40% di Ansaldo Energia a Shanghai Electric per 400 milioni di euro, e acquisizioni di piccole quote in Eni, Enel, Telecom, Fiat Chrysler, Prysmian. Tra gli obiettivi anche alcuni dei simboli del lusso italiano, tra cui Ferretti, società produttrice di yacht, oggi in maggioranza in mano ad investitori cinesi.
Ma questo è solo l’inizio. Martedì 14 ottobre il premier cinese Li Keqianq è sbarcato per la prima volta in Italia, dove ha incontrato Matteo Renzi a Palazzo Chigi per firmare una serie di accordi strategici: tra questi, un accordo tra Cassa Depositi e Prestiti e China Development Bank da 3 miliardi di euro per investimenti congiunti in Italia e Cina; un memorandum fra il Fondo Strategico Italiano e China Investment Corporation per investimenti congiunti del valore di 1 miliardo; un accordo fra Enel e Bank of China; uno fra AgustaWestland (gruppo Finmeccanica) e Beijing General Aviation; uno fra Intesa Sanpaolo e la banca import-export cinese, uno per la creazione di un ecoparco. Ad attirare le mire della Cina sull’Italia c’è sicuramente il fatto che in questo momento, vista la drammatica situazione economica, gli investitori possono comprare asset a prezzi molto scontati: l’Italia, come altri paesi europei, ha un significativo deficit commerciale con la Cina (nel nostro caso pari a circa 15 miliardi di euro), il che vuol dire che la Cina ha un gigantesco surplus da reinvestire. E non solo in Italia. In Grecia investitori cinesi hanno comprato metà del porto del Pireo; in Portogallo la rete elettrica; in Francia una quota rilevante di Peugeot.
L’entità dell’operazione è tale da aver portato alcuni a parlare addirittura di “nuovo Marshall Plan”. Il paragone è senz’altro azzardato. In quel caso, l’obiettivo (tutt’altro che disinteressato) delle autorità statunitensi era rilanciare l’occupazione e la domanda nel continente devastato dalla guerra, offrendo così un mercato alle esportazioni americane. Difficilmente il flusso di investimenti che viene dall’Est avrà oggi lo stesso effetto. È vero gli investimenti cinesi rappresentano una benvenuta boccata d’aria fresca in un momento in cui i capitali in Europa scarseggiano. Ma è altrettanto vero che quando si parla di investimenti esteri diretti bisogna distinguere tra semplici acquisizioni o fusioni di aziende già esistenti – in cui il confine tra investimento e svendita delle industrie strategiche nazionali (a maggior ragione se si tratta di infrastrutture sensibili, come i gasdotti e altre reti) è piuttosto labile –, e investimenti finalizzati alla creazione (o riconversione) di nuovi impianti nel paese in questione, che creano nuova occupazione. Finora gli investimenti cinesi sono stati soprattutto del primo tipo. È vero che nel caso di aziende strategiche nazionali, gli investimenti cinesi si sono perlopiù limitati all’acquisizione di quote di minoranze, anche per fugare i timori di un’eventuale “colonizzazione economica” dell’Europa, come quella che il gigante asiatico sta attuando nel continente africano. Ma è anche vero che alla fine del 2012 erano 195 le piccole e medie imprese, per un valore di 6 miliardi di euro, ad essere state acquisite in maggioranza o in toto da investitori cinesi o di Hong Kong. Ma non mancano gli esempi di nuovi impianti cinesi aperti in Italiani. Il caso più noto è quello della Huawei, la prima società di telecomunicazioni cinese, che in Italia ha due sedi (Milano e Roma) che danno lavoro a 700 persone e che ha annunciato di voler assumere 5,500 nuovi dipendenti in Europa nei prossimi cinque anni.
Ad ogni modo, che piaccia o meno, il processo di “internazionalizzazione” dell’economia cinese è una realtà con cui bisogna fare i conti. Come ha spiegato Parag Khanna, celebre stratega politico, nel suo libro I tre imperi, oggi esistono tre superpotenze che detengono congiuntamente la supremazia globale, in maniera competitiva ma non apertamente ostile: Europa, USA e Cina. E la sfida principale oggi si gioca sul terreno del commercio, dove la Cina ha una “potenza di fuoco” quasi imbattibile. Non a caso c’è chi dice che l’obiettivo del trattato di libero commercio che gli USA stanno negoziando con l’Ue, il TTIP, sia finalizzato proprio a rafforzare la loro influenza sul continente e ad arginare quelle forze che minacciano la sua supremazia economica: la Russia ma anche, ovviamente, la Cina.