Gli economisti non hanno ancora studiato per bene quali siano i rapporti tra una struttura di mercato di tipo oligopolistico e la crescita economica. Quelli che hanno studiato il tema (il più prestigioso è il premio Nobel James Tobin, che fu anche consigliere del presidente Kennedy) si sono spesso occupati solo degli effetti negativi che una struttura monopolistica o oligopolistica può avere sui prezzi. Ma oggi, in tempi di deflazione, preoccuparsi della crescita eccessiva dei prezzi non è più interessante. Il tema di una struttura oligopolistica dovrebbe, secondo noi, essere posto in modo diverso. E se fosse la struttura oligopolistica della maggior parte dei mercati dei paesi occidentali a porre l’economia in uno stadio di stagnazione permanente? Che le economie occidentali si siano impantanate (e questo potrebbe essere non solo per il breve termine) lo sostengono anche economisti come Larry Summers, ex ministro del Tesoro americano, che pur “infiniti lutti” ha addotto all’economia globale con la sua scriteriata politica di liberalizzazione dei mercati finanziari.
Intorno a noi oggi vediamo solo oligopoli. Basti pensare alla telefonia (Vodafone, Telecom, Wind, Tre), alle automobili (Volkswagen, Ford, Chrysler-Fiat, Opel e un’altra dozzina), ai settori legati alla tecnologia internet (Amazon, Google, Facebook, Microsoft, e pochi altri che si accaparrano il grosso del mercato) o al settore dell’editoria (Mondadori, Rizzoli, GeMS, Feltrinelli, Giunti) e della farmaceutica. Naturalmente, gli oligopoli non coprono interamente il mercato. Gli sfidanti delle imprese oligopolistiche, quelli che gli anglosassoni chiamano incumbent, esisteranno sempre. Ma la domanda resta: non sono per caso gli oligopoli la causa della stagnazione economica?
Qualcuno potrebbe sostenere che senza l’incredibile ammontare di cassa oggi nelle mani degli oligopolisti non sarebbe possibile portare avanti la Ricerca e Sviluppo per produrre innovazione. Questo è probabilmente vero in alcuni settori come il farmaceutico in cui enormi investimenti sono necessari per fare nuove scoperte. Ma solo in parte. Persino negli Stati Uniti, alcuni studi autorevoli sostengono che il tasso di crescita di nuove imprese (startup) è diminuita negli ultimi due decenni, creando un rallentamento nella creazione di nuovi posti di lavoro.
Ma quali sono i danni economici che può creare una struttura oligopolistica? Il primo e più importante è la scarsa qualità dei servizi offerti, soprattutto in alcuni settori. Riportiamo solo un esempio, poiché lo conosciamo bene, ma se ne potrebbero citare a centinaia: l’Acea, utility che opera a Roma, ha staccato ai primi di settembre l’elettricità a una nota casa editrice romana dopo aver mandato due raccomandate, tutte e due recapitate nei pressi di ferragosto, per una bolletta scaduta, senza tener conto dei danni che questo avrebbe arrecato.
Il secondo è la loro enorme capacità di saper fare lobbying, pericolo che ha illustrato molto bene nei suoi libri l’economista statunitense Robert Reich, ex ministro del lavoro nell’amministrazione Clinton. Qui non si tratta soltanto di corruzione (diffusa non solo in paesi come l’Italia ma molto meno, presumiamo, in Germania). Molti ministri, per la loro scarsa conoscenza dei settori, pensano di accrescerla parlando con i public affairs manager dei grandi oligopolisti. Se il nostro ministro della cultura Franceschini vuole avere delucidazioni su cosa sta succedendo nel mondo dell’editoria con l’entrata sul mercato di nuovi giganti come Amazon e con l’arrivo di nuove tecnologie (e-book) pensa di rivolgersi, in buona fede crediamo, alla principale associazione degli editori collegata alla Confindustria, l’Aie, l’Associazione italiana editori. Ma chi trova dietro questa sigla? Un presidente che gli riporta il punto di vista degli oligopolisti, che il ministro potrebbe credere essere un’analisi oggettiva dei fatti, anche se dovrebbe essere ormai edotto che così non è e che il problema di una fair competition è un problema che non riguarda tanto l’ingresso di un gigante come Amazon ma soprattutto le imprese italiane, soprattutto in quel settore.
Naturalmente, non siamo tanto ingenui da credere che una politica di apertura vera alla concorrenza sia la panacea di tutti i nostri mali (tra l’altro dovrebbe pensarci la nostra Antitrust, presieduta dal 2005 al 2011 da Antonio Catricalà, istituzione tra l’altro recentissima in Italia essendo stata ideata da politici come il repubblicano Battaglia negli anni ottanta e avendo cominciato ad operare solo negli anni novanta). Ma pensiamo che sia arrivato il momento per gli economisti (e per i politici interessati al tema) di cominciare a discutere se una sana e intelligente politica della concorrenza, con la riduzione delle barriere all’ingresso nei vari mercati (nell’editoria, ad esempio, gli oligopolisti controllano tutta la filiera produttiva: produzione, distribuzione e retail, con risultati economici peraltro non brillanti) non sia una delle condizioni necessarie per una florida società democratica e, per l’Italia, dove i cittadini hanno una propensione all’avvio di startup superiore a qualunque altro paese europeo, una delle vie – se non la principale – per risolvere il problema della creazione di nuovi posti di lavoro. E, naturalmente, per quanto riguarda i consumatori, l’ingresso di nuovi operatori amplierebbe la rosa di prodotti disponibili.