Bruxelles – Gli strascichi sociali e politici dell’attentato di domenica (24 settembre) nel nord del Kosovo rischiano di essere pesantissimi, nella regione e per il complesso tentativo dell’Unione Europea di mediare una normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado. Perché le ultime notizie che arrivano dal paese di Banjska hanno il potenziale di cambiare il corso delle relazioni istituzionali tra Kosovo e Serbia e di influenzare le dinamiche interne di entrambi i Paesi. Tanto più se le indagini giudiziarie confermeranno il contenuto di un video pubblicato oggi (26 settembre) in cui si vede uno dei leader di Lista Srpska – il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo – tra i 30 attentatori responsabili della morte di un poliziotto kosovaro.
Che la questione sia particolarmente seria lo dimostra il fatto che a pubblicare il video girato da una drone nella giornata di domenica fuori dal monastero serbo-ortodosso di Banjska – dopo l’attentato e prima dell’operazione di sgombero da parte delle forze speciali di polizia – è stato il ministro degli Interni del Kosovo, Xhelal Sveçla. Tra gli attentatori nel cortile del monastero viene evidenziato (a volto scoperto) Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska e già nella lista dei sanzionati dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. L’identificazione di Radoičić getta una lunga ombra sulla partecipazione della leadership politica dei serbo-kosovari nelle azioni di destabilizzazione del nord del Paese, potenzialmente smascherando senza possibilità di appello una strategia che va avanti da anni. Dal 2014 Lista Sprska ha quasi il monopolio della rappresentanza della minoranza serba all’Assemblea del Kosovo (sempre 9 seggi su 10 garantiti, se non addirittura tutti) e fino al 2021 ha partecipato anche alle coalizioni di governo. Da quando Albin Kurti è diventato primo ministro nel febbraio di due anni fa, il partito ha iniziato una dura campagna di opposizione e ha partecipato a tutte le azioni di contestazione più o meno violenta nelle regioni settentrionali a maggioranza etnica serba. Dopo l’attentato di domenica Lista Sprska ha annunciato tre giorni di lutto non per il poliziotto ucciso, ma per i tre attentatori freddati nel corso dell’operazione anti-terrorismo.
La questione coinvolge però da vicino anche l’Unione Europea. “L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, è in contatto con le controparti in Kosovo e Serbia e gli Stati membri stanno discutendo della situazione“, ha precisato in un punto con la stampa di Bruxelles il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, cercando di non sbilanciarsi eccessivamente sul presunto coinvolgimento del vice-capo di Lista Srpska. “Le investigazioni sono in corso, non sono ancora concluse e sono in mano alla polizia del Kosovo” – con l’assistenza della missione Eulex dell’Ue e della forza militare internazionale Kfor guidata della Nato – ha predicato calma Stano: “Fino a quando le investigazioni sono in corso non presenteremo giudizi e verdetti su cosa è successo, dobbiamo stabilire i fatti e chi ha organizzato ed eseguito l’attacco terroristico, e portare davanti alla giustizia i responsabili”.
Per Bruxelles è cruciale non rendere la situazione ancora più tesa, perché ora il rischio di far crollare tutto il castello di accordi, intese, protocolli e allegati è molto più che una possibilità concreta. In primis per quanto riguarda il dialogo Pristina-Belgrado, perché “l’Ue è un mediatore e può solo aiutare le parti per arrivare a un accordo, le soluzioni costruttive sono dei partecipanti di questo dialogo“. E senza fiducia (già precaria) tra Serbia e Kosovo potranno essere cestinati sia l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio sia l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo. Ma soprattutto si mette su una pessima strada lo sforzo di normalizzare la situazione nei quattro comuni del nord del Kosovo oggetto di controverse elezioni (Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica), per cui con forza lo stesso alto rappresentante Borrell ha recentemente esortato il governo di Pristina a spingere i sindaci a dimissioni per andare al voto anticipato. Il capo della diplomazia europea aveva avvertito anche i cittadini serbo-kosovari di “mostrare uno spirito costruttivo e impegnarsi in modo incondizionato al processo elettorale”, a fronte del pericolo di “una nuova escalation che continuerà a incombere”.
Dopo quanto accaduto domenica è difficile pensare che Lista Srpska possa godere della stessa credibilità di prima, dopo nove anni di difficile integrazione. Come fanno notare gli analisti, il partito potrebbe essere politicamente finito, per due motivi: perché la fiducia della comunità di etnia albanese è completamente sparita e perché non è più possibile condividere il potere con una forza che più o meno ufficialmente è considerata sponsor del terrorismo interno. E questo potrebbe avere due conseguenze pesanti e a lungo termine dentro e fuori il Kosovo, legate molto strettamente: l’affermazione di nuovi partiti serbo-kosovari indipendenti e una perdita di influenza della Serbia sul piano politico nel Paese confinante. Lista Sprska è un partito indirettamente controllato dal presidente della Serbia, Aleksander Vučić, che ha dimostrato come Belgrado cerchi di interferire negli affari interni di Pristina. Per esempio quando lo scorso anno Nenad Rašić è stato nominato ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska, e Vučić aveva tentato qualsiasi mossa diplomatica per impedire questa nomina. Oggi per la prima volta Lista Sprska potrebbe perdere il primato della rappresentanza dei serbo-kosovari, offrendo il fianco a politici come Rašić che cercheranno di strappare il nord del Kosovo dal controllo di Belgrado. In altre parole Vučić non sarà più in grado di imporre il ‘suo’ partito come unico interlocutore interno al governo di Pristina, dimostrando che la tattica di favorire personaggi discutibili come Radoičić si è rivolta contro di lui.
Due anni di tensione in Kosovo
Ricostruire le tensioni tra Serbia e Kosovo è come affrontare un domino, per ogni tessera caduta bisogna risalire a quella precedente. Ma Lista Srpska rimane una costante nelle diverse escalation, armate e non, in particolare negli ultimi due anni. Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘. Inizialmente si è trattata di una controversia diplomatica tra Pristina e Belgrado, legata alla decisione del governo Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro, usate in larga parte proprio dalla minoranza serba nel Paese. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha infiammato la seconda metà del 2022: a fine luglio sono comparsi i primi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sblocco dello stallo.
La situazione si è aggravata quando Lista Sprska ha preso in mano le redini della protesta popolare nel nord del Kosovo. Il 5 novembre sono andate in scena dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state poi rinviate al 23 aprile. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre a Bruxelles, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana il presidente serbo Vučić ha minacciato di boicottarlo a causa della nomina di Rašić all’interno del governo kosovaro (al posto del leader di Lista Srpska, Goran Rakić).
Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi. L’appuntamento alla nuova crisi doveva attendere solo cinque mesi, più precisamente il 26 maggio 2023. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica sono scoppiate violentissime proteste con la responsabilità di esponenti di Lista Srpska, trasformatesi il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). La tensione è deflagrata per la decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio proprio di Lista Srpska.
Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio. Parallelamente è andato in scena il 14 giugno un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usata da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati, Bruxelles ha ritenuto necessario convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi”. Il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno.
A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure (“non sanzioni”, come ricorda Bruxelles) è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, che Pristina sta implementando ancora a fatica e che dovrebbe portare a nuove elezioni locali con il coinvolgimento teorico anche di Lista Srpska. Lo scorso 14 settembre si è svolto l’ultimo round di alto livello del dialogo Pristina-Belgrado a Bruxelles, che ha dimostrato ancora una volta tutte le difficoltà a trovare un punto di compromesso proprio sul nord del Kosovo e sullo statuto della minoranza serba nel Paese: dopo 10 anni dall’Accordo di Bruxelles sull’Associazione delle municipalità a maggioranza serba in Kosovo, è ancora lontana l’implementazione della comunità nel Paese a cui dovrebbe essere garantita autonomia su tutta una serie di materie amministrative. E in questa incertezza gli estremisti violenti – tra cui molti risiedono nei ranghi di Lista Srpska – proliferano nella regione.
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