Bruxelles – “Se dipingo come dipingo, è innanzitutto perché sono catalano. Ma, come tanti altri, sono colpito dal dramma politico della Spagna nel suo complesso. Nella mia pittura voglio inscrivere tutte le difficoltà del mio Paese, anche se suscito dispiacere: sofferenza, esperienze dolorose, carcere, un gesto di rivolta. L’arte deve vivere la verità”. Così scrive Antoni Tàpies, nato a Barcellona nel 1923, e vissuto sotto la dittatura di Franco per gran parte della sua vita.
Diventato pittore come autodidatta, dopo aver studiato legge costretto dal padre, dalla fine degli anni ’40 si dedica interamente alla pittura. I suoi lavori giovanili sono fortemente influenzati dall’iconografia surrealista e dalle ambientazioni mitiche di Bosch; autoritratti e lavori figurativi che esprimono il carattere introspettivo di Tàpies e la sua critica verso il mondo dell’Accademia.
Nel 1950 riesce a lasciare la Spagna e trascorrere un periodo a Parigi, ed è qui che si rende conto della libertà espressiva
tanto censurata nel suo paese.
A partire da questi anni inizia la sua produzione più prolifica, i cosiddetti “dipinti materici”, opere costruite con metodi originali e materiali inusuali quali sabbia, polvere, peli e paglia.
Grandi “muri” dipinti sui quali Tàpies applicava spesso tecniche di frottage e grattage, muri da scartavetrare e alterare che rispecchiavano le sofferenze vissute nella Spagna franchista.
Opere tridimensionali dove la presenza materica è palpabile, opere costruite con materiali semplici, materiali del quotidiano che donano ai dipinti il fascino della semplicità e una potenza comunicativa impressionante.
Tàpies vuole svegliare lo spettatore, spingerlo a pensare in maniera differente, ad allargare la sua visione e le sue idee; vuole provocare e sconvolgere, vuole mostrare quello che al suo tempo la società non voleva assolutamente che fosse mostrato. Ed è così che troviamo grandi tele con la rappresentazione di un’ascella pelosa, un piede a sei dita, un ombelico, un letto sfatto, opere che non hanno bisogno di una spiegazione ma che sono la semplice rappresentazione della realtà come la vedeva l’artista.
Negli anni ’60 e ’70 le opere di Antoni Tàpies si fanno ancora più politiche tanto da dedicare alcune tele alle uccisioni di anarchici e politici da parte della dittatura franchista.
“La situazione sociale e politica del mio Paese ha sempre avuto una ripercussione sul mio lavoro. Credo che questo abbia a che fare con il fatto che non trovo valido il concetto di arte per l’arte. Ho sempre mantenuto un atteggiamento utilitaristico nei confronti dell’arte”.
Con l’istituzione della democrazia in Spagna nella seconda metà degli anni ’70 il lavoro di Tàpies si muove verso nuove ricerche a livello materico, inizia ad usare la vernice e ad essere influenzato dalla spiritualità orientale, dagli haiku giapponesi agli upanishads indiani. Si concentra molto sull’essenza dell’Universo e degli esseri che lo abitano.
Pensieri che negli ultimi decenni del suo lavoro lo portano a vivere un forte senso di malinconia e nostalgia che lo portano a riflettere molto sulla morte, sulla sofferenza e sul ricordo di gesti, memorie ed esperienze.
La mostra, curata da Manuel Borja-Villel sarà in scena al Bozar fino al 7 gennaio 2024 quando si sposterà a Madrid al Museo Reina Sofia e poi alla Fondazione Antoni Tàpies, aperta nel 1990 proprio su volontà dell’artista.
Come ha sottolineato il Direttore artistico del Bozar Christophe Slagmuylder “Antoni Tàpies collega l’intimo con il politico, il materiale con lo spirituale, collega le radici individuali con un mondo alla ricerca della solidarietà internazionale”.
Le sue origini, il suo vissuto e le sue esperienze fanno delle sue opere dei manifesti sociopolitici; le sue tele urlano quello che molti non sono riusciti a urlare in quegli anni e abbracciano il visitatore con passione e una grande potenza evocativa.