Sì, la prima parte del titolo è in italiano e la seconda in inglese. E’ fatto apposta, per evidenziare il singolare atteggiamento del governo italiano nei confronti dell’Unione europea: da una parte come la vedono a Roma, dall’altra come potrebbero vederla presto a Bruxelles. E non dimentichiamo che, partendo dal cherry picking iniziò (e tentò di svilupparsi senza successo) la tragedia della Brexit.
A leggere i giornali di oggi sembra quasi che Giorgia Meloni abbia dichiarato guerra all’Unione europea, in particolare sui fronti Mes, Bce e Green Deal, “nell’interesse della Nazione”. Noi, ha detto la presidente del Consiglio alle Camere, (sunteggio qui) agiamo nell’interesse nazionale, come fanno anche gli altri Paesi dell’Ue. Dunque il Mes non ci sta bene (anche se non si capisce il vero perché per noi le cose stanno in un modo diverso rispetto a tutti gli altri membri) e o si modifica o non lo faremo usare a chi magari lo vorrà, e il rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Bce è un danno alla nostra economia perché in realtà danneggia noi più che altri. Sull’inflazione ci sarebbe molto da dire, come ad esempio che i commenti che arrivano dal governo italiano prescindono accuratamente dalle ragioni che Christine Lagarde ha spiegato, e cioè ad esempio che non è l’andamento, tendenzialmente ma non sempre in calo, del costo dell’energia a determinare le decisione ma è l’inflazione “core”, cioè quella dei prezzi dei beni di consumo al netto dell’energia, e che un grande contributo alla crescita dei prezzi sono proprio le scelte delle aziende che li hanno aumentati in maniera straordinaria approfittando di una situazione contingente per aumentare i propri margini di profitto. Questo ha detto Lagarde e questo invece non rilevano gli esponenti del governo italiano che la attaccano.
Sembra dunque esserci un’opposizione di principio, tesa a costruire una nuova Unione più intergovernativa e meno comunitaria, ed una di comodo, tesa ad aumentare il consenso facile dei cittadini.
In realtà ci sono molti altri elementi di scontro, che vediamo tutti i giorni nel lavoro parlamentare e dei governi qui a Bruxelles, per cui l’Italia sempre più spesso si ritrova da sola tra i Ventisette (ed è vero quel che dice Meloni, non c’è un fronte unito permanente con Polonia e Ungheria, ma non c’è perché i nazionalismi per loro natura molto spesso non si incontrano).
E’ anche vero però che su altri fonti l’Italia o con decisione o a malincuore è allineata con l’Unione. Come sta avvenendo per la risposta all’invasione russa dell’Ucraina, o come ha scelto di lasciar passare, astenendosi, la norma sulle auto elettriche nel 2035. Ma abbiamo votato contro o ci siamo espressi contro la legge sul Ripristino della Natura, le nuove norme sulla pesca (da soli), la proroga degli stoccaggi del gas. Sul Pnrr stiamo prendendo tempo, tutto il tempo concesso, è vero, senza violare nessuna norma. Sul nuovo Patto di Stabilità siamo problematici, in parte probabilmente non a torto, ma abbiamo taciuto quando la Commissione ha deciso di non lanciare un Fondo Sovrano per l’industria verde, per il quale il nostro governo si era fortemente battuto.
Cherry picking vuol dire letteralmente cogliere le ciliegie, ed il suo significato in questo contesto è scegliere di prendere solo quello che piace. Ci provò la Gran Bretagna prima di arrivare alla Brexit, e ci provò durante i negoziati per la separazione. Gli andò male, come si è visto. E anche la scelta di lasciare l’Unione non ha premiato i sudditi di Carlo III.
Non credo che il governo italiano stia preparando la strada per porre la questione dell’Italexit, troppo forte è il sostegno dei cittadini all’appartenenza all’Unione e ribaltarlo è un’operazione di lunga lena, non ipotizzabile nel giro della vita di uno o due governi. Molti membri di questo esecutivo poi sanno bene quali sono i vantaggi di essere nell’Unione, come, ritengo, Antonio Tajani o Giancarlo Giorgetti, uomini chiave di questa maggioranza. Certo, alcuni forse anche in buona fede invece non lo capiscono, altri magari in malafede sono pronti a giocarsela come carta elettorale di breve visione, ma non credo che la questione sia sul tavolo e non credo che Giorgia Meloni se la ponga.
Però il rischio di un isolamento c’è. Bisogna capire se è un rischio “calcolato” o meno. Se cioè si spinge e si frena per motivi di politica interna ma nella sostanza lasciando andare avanti le cose o se invece la volontà di mettersi di traverso è reale. In sostanza su un provvedimento nel quale è richiesta una maggioranza di Stati, astenersi o votare contro facendo parte di un piccolo gruppo non blocca l’iniziativa ma permette di condannarla pubblicamente. Un atteggiamento di questo tipo però ha un prezzo che si paga con la marginalizzazione di fatto.
Questo è un anno complicato, perché è il primo del governo Meloni, che ha promesso di lavorare per cambiare l’Unione in un senso più nazionalista, e perché tra meno di dodici mesi si voterà per il Parlamento e poco dopo si cambieranno anche le altre cariche istituzionali dell’Ue. I governi dunque fanno le loro scommesse, provano alleanze, fissano paletti o sciolgono le briglie, cercano insomma di mettersi in una posizione che possa essere decisiva nel determinare gli assetti futuri e le future “riconoscenze” dei prescelti.
E’ vero, come dice Meloni, che le alleanze in politica estera, e nei negoziati interni all’Unione, possono cambiare a seconda delle materie, ma alcuni principi devono restare solidi: come siamo alleati con i Paesi della Nato e dunque quello è il nostro quadro di riferimento nella politica internazionale, così nell’Unione europea ci stiamo condividendo principi e obiettivi, che dicono che certo ognuno può, deve, dire la sua, ma dicono anche che l’interesse nazionale coincide con quello dell’Unione tutta. E che dunque si prende, ma anche si dà.