Cade in questi giorni l’anniversario di un fuoco di paglia che bruciò appunto in un soffio l’anno scorso senza lasciare traccia: la celebrazione del gemellaggio Roma-Parigi, con gli speculari festival Dolcevita-sur-Seine nella capitale francese e Nouvelle Vague sul Tevere a Roma.
Seguirono grandi proclami, fra cui la pregnante promessa del sindaco Gualtieri di un cartello celebrativo sul raccordo anulare e una rassegna del cinema italiano a Parigi mai andata in onda. Il “gemellaggio esclusivo” siglato nel 1956 proclama che “solo Parigi è degna di Roma e solo Roma è degna di Parigi” e si dà la nobile missione di celebrare e coltivare i legami e le affinità fra le due capitali.
Forse invece non ci sono in Europa città più lontane e diverse.
Parigi, città premeditata, pensata a tavolino, si dipana maestosa e tutta uguale sui suoi boulevard larghi e dritti dove i palazzi si susseguono indistinti, costruiti con la stessa pietra, il calcare di cui è fatta mezza Francia, che d’inverno si fonde nel suo cielo plumbeo da cui emergono soltanto i ricami del ferro battuto di balconi anch’essi tutti uguali.
Roma, città improvvisata e teatrale, imprevedibile e contorta, si erge sui sette colli offrendo ad ogni svolta una quinta diversa, una paletta infinita di pastelli, di stili, di marmi consunti e no, mai uguali, balconcini e alzane, muri accavallati, incastrati in altri o mutilati, erte e pendii dove le strade sboccano contro gli angoli di palazzi sontuosi, fatti con pietre mille volte riciclate e anche nei quartieri ottocenteschi dove la città pare aver tentato una pianificazione, il suo spontaneo disordine finisce poi per traboccare, nei chioschi e nei mercati, nelle garitte abbandonate di polizie che furono, nella veranda abusiva di un ristorante fallito diventato supermercato cinese.
Parigi, con le terrazze dei suoi caffè tutti uguali, in stile “bistrot parisien”, stesso vimini di tutta la Francia, tovaglie immacolate al vento, sempre lo stesso menù, perché non si perda tempo a scegliere e dopo la pausa si passi subito da un cinema a un teatro a una mostra. Caffè certo brulicanti di gente ma che si muove seguendo un ordine nascosto, che si alza e si siede come a teatro, dove anche il vasetto della senape è sempre lo stesso, intercambiabile da un bistrot all’altro e chissà che anche i camerieri, tutti in bianco e nero, ogni tanto non vadano per sbaglio a servire il “Kir vin blanc” al bistrot di fronte.
Roma con le sue terrazze accampamento, che si protraggono sul suolo pubblico un tavolino alla volta, avanzando subdolamente il recinto dei vasoni di pitosforo secco, pieni di cicche e di erbacce, diversi da un bar all’altro, plasticona o ferro battuto, dall’orrido al sublime, coi camerieri così scamiciati che sembrano turisti e il menù plastificato, anche in versione inglese zeppa di errori, il bagno senza carta ma con la scritta appesa sullo sciacquone che invita a non gettare assorbenti nel water.
Roma terza città d’Europa per metro quadro di verde, ma di magra fruibilità per mancanza di trasporti pubblici adeguati e strutture come parcheggi, percorsi tracciati e servizi.
Parigi, dove gli innumerevoli parchi sono tosati col rasoio e i fiori delle aiuole cambiano da una stagione all’altra, attrezzati con sedili dipinti di verde, tutti uguali, dritti o reclinati e panchine di legno e ferro battuto, come i cestini per l’immondizia, con i giardini di quartiere recintati e vietati ai cani, tutti muniti di uno spazio per i bambini, la vasca della sabbia e l’altalena, aprono alle 9 e chiudono alle 19 mentre nei pochi di Roma si entra e si esce ad ogni ora, si lasciano le bottiglie di plastica accanto al sacco vuoto dell’immondizia, si portano i cani a defecare, quando non l’hanno già fatto sul marciapiede.
Roma con l’erba alta fino al ginocchio attorno alle fontane di piazza Farnese e sul ponte Matteotti, con gli alberi mozzati e mai sostituiti al quartiere Prati, con i rottami nelle aiuole di Via Flaminia, vecchie catene arrugginite di biciclette rubate rimaste legate ai lampioni e il guardavia di alluminio sul ponte Pietro Nenni come fosse uno svincolo dell’autostrada.
Parigi che fa la guerra alle automobili e riserva corsie intere alle biciclette, con servizi di noleggio comunali di bici elettriche e meccaniche. Roma, dove l’automobile è sovrana e si parcheggia ovunque.
Parigi, sempre in corsa per la modernità, con una rete di metropolitana forse vecchia ma onnipresente, linee a conduzione automatica e taxi a volontà.
Roma, con tre linee calcinate percorse da treni di cinquant’anni fa e pochi tassisti logorati dall’astio e tormentati dall’incubo della carta di credito.
Parigi, facile e prevedibile, livellata dalla sua uniformità, contestataria e rissosa ma alla fine sempre nei ranghi. Roma antimoderna e pecorona ma pronta alla compassione, dove la colpa è sempre degli altri, altri indefiniti che non siamo io e te.
Roma appena fuori dal centro si dipana seguendo il disegno delle lottizzazioni edilizie, senza progetto e senza visione di città. I servizi seguiranno, se il Comune lo vorrà. E lo saprà.
Parigi fanatica della pianificazione che progetta fino i suoi cittadini ed erige quartieri dormitorio dove tutto è previsto salvo l’umanità.
Alla fine due città che non hanno niente da dirsi, che si conoscono solo attraverso lo specchio di un turismo oppresso dai cliché. Tour Eiffel e Colosseo, Vespa e “baguette”, come se la Roma multiculturale di
oggi, con le sue comunità straniere ormai radicate, con indiani che gestiscono le edicole e cinesi i caffè fosse ancora quella provinciale e romantica della Dolce Vita. E come se il cinema della Nouvelle Vague avesse ancora qualcosa a che fare con la Parigi dell’ambientalismo militante e dell’islamismo, della nuova sinistra melenchonista e della rabbia urbana.
La conoscenza reciproca può venire solo dalla cultura, quella vera, quella che non cambia mai ma che continua a parlarci. E dallo scambio delle idee, quelle sì sempre nuove, ma che presuppone la condivisione della lingua. Quanti parlano francese a Roma? Quanti l’italiano a Parigi? Alla fine viene da interrogarsi sul senso di questi gemellaggi affidati a un cartello stradale e a un fuoco d’artificio stagionale che non lascia nulla dietro di sé.
Stefano Bartezzaghi nella sua rubrica Lessico e Nuvole aveva inventato i gemellaggi immaginari di città che nascondevano nel nome un loro segreto legame. Così aveva ironicamente messo insieme Latisana e Benidorm. Forse in questa chiave va cercato il gemellaggio giusto per Roma, magari con il Cairo o con Istanbul, città di contrasti e di tragedia che non possono togliersi di dosso la loro immanità e di quella vivono, loro come Roma città eterne e eternamente antiche, città dove è successo già tutto eppure qualcosa che doveva succedere non è ancora successo, come diceva Raffaele La Capria di Napoli, e opprimente incombe su di loro. Città estreme da cui non si torna indietro, che prosperano nella loro asprezza e sornione aspettano che la corsa della modernità si infranga nelle sue contraddizioni. Allora torneranno ad essere una alla volta capitali del mondo, uniche, irriducibili, impossibili da accoppiare.