La vittoria della Germania ai campionati del mondo di calcio in Brasile è uno straordinario simbolo della potenza della Germania in questo particolare momento storico. Anche l’euro è destinato a diventare – in questo caso persino contro la sua stessa volontà – campione del mondo della moneta. Qualche commentatore si è stupito che gli investitori abbiano fatto man bassa di bund tedeschi (a due anni) a un tasso vicino allo zero (0.01%). In pratica c’è chi è disposto a fare prestiti al governo tedesco a tassi zero. Perché? Innanzitutto, quando la domanda di titoli è altissima – come è il caso dei titoli di debito tedeschi – naturalmente i tassi scendono ai minimi praticabili, anche se mai si era mai visto un tasso nominale così basso che, se si tiene conto dell’inflazione, pari allo 0.5%, diventa un tasso di interesse negativo.
Ma la vera ragione della corsa all’acquisto di bund-rifugio sta nel fatto che, nonostante le lamentele di tanti amministratori delegati di imprese europee, soprattutto italiane e francesi, che ritengono il valore attuale dell’euro (che viaggia su una parità tra 1,35 e 1,37 dollari) una follia, per come stanno le cose oggi, l’euro non può che continuare a salire, e questa non è una perversione, come sostengono persino quotidiani autorevoli come il Financial Times. La perversione semmai è che il dollaro non sia ancora precipitato più in basso. Solo un rialzo dei tassi americani – previsto a fine anno, ma secondo noi potrebbe avvenire anche prima, nonostante Janet Yellen, la nuova governatrice della Fed, vorrebbe rimandarlo all’anno prossimo, per evitare una valanga di vendite che farebbe scendere drammaticamente il valore dei titoli di debito americano (Treasury Bonds) e determinerebbe un ribasso della borsa e del valore degli immobili – potrebbe rallentare la caduta del dollaro. Vediamo perché.
Tutti noi avevamo pensato, all’inizio della crisi finanziaria nel 2008, che il destino del dollaro fosse segnato, non solo come moneta maggiormente usata nelle transazioni internazionali (in particolare per l’acquisto del petrolio) – di recente, il ministro delle finanze francese Michel Sapin ha alzato la voce contro quello che viene comunemente chiamato “l’esorbitante privilegio” del dollaro e la prepotenza dei suoi regolatori che hanno costretto BNP Paribas a pagare una multa di nove miliardi di dollari per aver aggirato le sanzioni contro il Sudan e Cuba, multa che non avrebbe dovuto pagare se le transazioni in oggetto fossero state in euro e non in dollari – ma soprattutto come la principale moneta al mondo usata come store of value, ossia quella in cui le banche centrali di tutto il mondo preferiscono investire le loro riserve. Come unità di conto, la terza funzione di una moneta, naturalmente ogni paese usa la propria. Ma, contrariamente ad ogni logica economica, il dollaro si è rafforzato persino come store of value. E, a sorpresa, la percentuale delle riserve delle banche centrali denominata in euro, che era salita subito dopo l’introduzione dell’euro nel 2001, è poi ridiscesa durante la recente crisi. Che la crisi del 2008 fosse anche una guerra tra valute per attrarre i risparmi mondiali non era sfuggito a qualche osservatore. Se l’euro avesse continuato a crescere come moneta di riserva, gli Stati Uniti avrebbero avuto qualche problema a finanziare il loro enorme squilibrio tra risparmi e investimenti, che poi si traduce in un deficit nella parte corrente della bilancia dei pagamenti.
Durante la crisi i capitali, nonostante il tasso reale americano fosse vicino allo zero e la probabilità di un ulteriore deprezzamento del dollaro alta, i flussi di risparmio mondiale si sono diretti ancora una volta verso gli Usa per tenere in piedi l’ormai cronico deficit americano. Gli Usa hanno continuato a essere il più grande importatore di capitali – cioè di risparmio altrui – al mondo. Tra il 2000 e il 2012 più della metà dei risparmi mondiali sono stati convogliati verso gli Stati Uniti. Sembra uno dei più inspiegabili paradossi della teoria economica. Secondo quest’ultima, infatti, i risparmi dovrebbero affluire verso i paesi più poveri che ne hanno maggiormente bisogno, poiché la loro dotazione di capitale e infrastrutture li penalizza. E invece no! Il paese più ricco del mondo ha continuato e continua a sifonare la maggior parte dei risparmi mondiali.
Ancora oggi gli Usa continuano ad essere il paese con il più alto deficit nella parte corrente della bilancia dei pagamenti, con un deficit di 405 miliardi di dollari. I paesi dell’eurozona hanno nel loro complesso un avanzo pari a 329 miliardi: 280 di questi sono a carico della Germania ma anche l’Italia (+30.5) e l’Olanda (+86.3) hanno surplus importanti. La Cina ha un avanzo che sta lentamente scendendo ma è ancora pari a 143 miliardi.
Un avanzo o un deficit nella parte corrente della bilancia dei pagamenti non è di per sé un a cosa buona o cattiva. Dipende dal livello di sviluppo e dalle circostanze. Per un paese povero con un basso livello di risparmio nazionale il deficit potrebbe essere uno strumento per uno sviluppo più rapido. Ma oggi quello che vediamo non è uno spettacolo piacevole da osservare. Gli Usa, il paese più ricco al mondo, con un tasso bassissimo di risparmi, importano capitali dal resto del mondo per finanziare non gli investimenti ma i consumi, approfittando così dell’“esorbitante privilegio” della loro moneta.
Naturalmente, prima o poi, dovrà arrivare il momento – a meno che tutti i paesi che investono i loro risparmi nel debito americano non siano masochisti – in cui gli investitori esteri non saranno più disponibili a investire in una moneta che si è già deprezzata negli ultimi anni e con ogni probabilità continuerà a deprezzarsi.
Anche i surplus, d’altra parte, non sono sempre una buona cosa. La Cina, ad esempio, è uno dei paesi che ha il più alto tasso di risparmio al mondo, equivalente quasi al 50% del reddito disponibile. Dovrebbe essere una virtù, ma di fatto non lo è. La troppa virtù in questo caso diventa un difetto. Questo discorso vale anche per la Germania. Se un paese è in disavanzo, aumenta la domanda nazionale e spinge la crescita nel resto del mondo; se ha un avanzo è vero il contrario, cioè frena la domanda e la sottrae al resto del mondo. C’è un ulteriore problema, e cioè che un avanzo eccessivo fa salire il valore dell’euro. E purtroppo, nonostante le lamentele di molti imprenditori, l’euro è condannato ad apprezzarsi ancora. E cosi dovrà essere per la “moneta del popolo” cinese, il renminbi (equivalente alla moneta usata in Cina come unità di conto, lo yuan).
Attualmente in Europa il six-pack prevede in modo asimmetrico che un paese in deficit non debba superare il 4% di deficit nella bilancia dei pagamenti per tre anni consecutivi, mentre chi è in surplus può arrivare al 6%, sempre per 3 anni. Non si capisce quale sia la ratio economica dietro questa asimmetria, e comunque i conti tedeschi presentano da oltre cinque anni un avanzo nelle parti correnti che si aggira intorno al 7% del Pil. Non si capisce bene perché l’Italia sia sempre a rischio di essere sanzionata per lo sfondamento dei parametri sul deficit e sul debito, mentre a questo sforamento della Germania nessuno faccia caso, tenendo anche conto che l’avanzo della Germania è in continua crescita. Nel 2012 è stato pari a 236 miliardi (di cui 77 verso l’area euro), nel 2013 è salito a 248 miliardi (60 verso l’eurozona) e quest’anno dovrebbe salirà ancora, avvicinandosi ai 280 miliardi.
Matteo Renzi dovrebbe ricordare alla signora Angela Merkel, che il 17 luglio compie sessant’anni, che la Germania è inadempiente da questo profilo tanto quanto lo siamo noi sul fronte del debito pubblico e che politicamente sarebbe molto più facile per la Germania contenere il suo avanzo (spingendo i propri cittadini a consumare e spendere di più) che per noi fare politiche di lacrime e sangue per ridurre il debito pubblico. Inoltre, poiché il six-pack è un regolamento che può essere modificato dal Parlamento europeo, dovrebbe mettere all’ordine del giorno la necessità di ridiscuterlo e renderlo simmetrico per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti, oltre che più “flessibile” su molti altri punti.