Per la terza volta, dopo Gaston Thorn nel 1981 e Jacques Santer nel 1995, Jean-Claude Juncker, un uomo politico del Granducato del Lussemburgo, uno stato con meno abitanti di Napoli, guiderà la Commissione europea. Da quello che sappiamo di Juncker – per diciotto anni premier di un noto paradiso fiscale e per nove capo dell’Eurogruppo dell’austerità (anche se lui ha segnato alcuni distinguo) – è difficile credere che sia lui la persona giusta per guidare la Commissione nel periodo 2014-19, un periodo cruciale per il futuro degli stati (uniti?) d’Europa.
Ma al di là della persona, è il metodo della scelta che potrebbe cambiare i rapporti tra le istituzioni europee: per la prima volta nella storia dell’Unione europea, il nuovo presidente è stato scelto non dai capi di stato ma è il risultato della scelta fatta prima delle elezioni dalle grandi famiglie politiche paneuropee. Il gruppo politico che avrebbe vinto le elezioni avrebbe avuto diritto alla nomina. E così è stato, nonostante l’opposizione del primo ministro inglese David Cameron (anche se pare che in realtà i due vadano piuttosto d’accordo, e non poteva che essere altrimenti, visto che uno è il premier della piazza finanziaria più importante dell’Europa e l’altro l’ex premier della principale piazza bancaria del continente) e di quello ungherese Orbán.
Qualcuno sostiene che l’elezione di Juncker cambierà radicalmente gli equilibri europei, portando una nuova, necessaria ventata di freschezza democratica a Bruxelles. Lo speriamo anche noi che facciamo il tifo per un’Europa meno burocratica e tecnocratica. Siamo stati tra i primi a sostenere la scelta del Parlamento di adottare il sistema dello Spitzenkandidat, cioè della scelta di un candidato alla presidenza per ogni famiglia politica paneuropea. Avevamo sperato che di fronte a una crisi tanto profonda come quella che stiamo attraversando, noi cittadini europei potessimo avere la possibilità di scegliere tra candidati che portassero avanti visioni alternative di quali dovessero essere le politiche economiche giuste per uscire dal pantano.
Purtroppo finora l’esito di questo “esperimento democratico” è stato molto deludente: i candidati dei maggiori partiti erano tutti rappresentanti della “vecchia” Europa, pressoché totalmente sconosciuti agli elettori e in più sono stati di fatto tutti bocciati nelle urne. Tranne forse il candidato della sinistra, che ha significativamente aumentato i suoi voti, e quello dei socialdemocratici, che grazie ai voti del Pd italiano hanno visto aumentare un po’ i deputati del gruppo. Gli euroscettici si sono tenuti fuori da questa gara, non per orgoglio o per sobrietà, ma perché non avevano partiti europei da presentare agli elettori. Come è andata a finire? È andata che il candidato del partito che ha perso più voti (pur rimanendo il primo in termini di deputati) è stato scelto per guidare la Commissione.
In tutto questo Martin Schulz – che ha tentato di tirare le fila, di esasperare le posizioni per affermare un ruolo del Parlamento che garantisse anche a lui una posizione in Commissione – è stato impacchettato abilmente da Angela Merkel, che non lo può soffrire pare neanche sul piano personale. Tanto per segnare l’umiliazione, due giorni dopo che lui si era dimesso da presidente del Parlamento per poter liberamente negoziare la propria collocazione in Commissione, la cancelliera ha deciso di ricandidarlo al Parlamento. Lui non ha capito quel che succedeva, e lei lo ha incastrato. La Commissione se la scorda e si fa un altro giro di due anni e mezzo alla testa dell’Assemblea; non era mai successo prima, ma insomma, è un risultato modesto. Anzi, possiamo dire che se il Parlamento può vantarsi di aver imposto il presidente della Commissione deve però riconoscere che il presidente del Parlamento è stato imposto dai governi (o dalla Merkel almeno).
Un disastro completo, insomma: in termini di confusione, di credibilità delle persone e delle istituzioni, frutto dell’arroccamento difensivo, della mancanza di coraggio e di visione, della cecità. Che si pagherà caro nei prossimi cinque anni. Soprattutto se si considera che il programma di lavoro, a Juncker, glielo ha scritto il presidente uscente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy, prima ancora che lui fosse nominato.
Quanto potrà contare una Commissione che nasce con queste premesse? Riuscirà a scrollarsi di dosso la fama che si è fatta negli anni la Commissione di Barroso, cioè di essere “il bambino del Consiglio europeo”? Avrà Juncker il coraggio di prendere qualche iniziativa autonoma, senza la benedizione merkeliana? Oppure anche lui si farà la nomea di essere una sorta di maggiordomo di Angela Merkel?
Il nostro paese – il cui reddito nazionale, è bene ricordarlo, è ancora inferiore di quasi dieci punti a quello del 2007, come ha ben sottolineato la Banca d’Italia nel suo rapporto annuale, e il cui debito pubblico continua a crescere senza sosta – potrebbe essere cruciale nel determinare l’esito di questa partita.
Nel suo messaggio sul sito della Presidenza italiana dell’Unione, il presidente del Consiglio Matteo Renzi termina con questa parola: “speranza”. L’Europa, intende, deve tornare ad essere ambizione, sogno, protezione, conforto, sorriso e anche lavoro, scuola, ecc. Quando c’è un importante giro di nomine c’è sempre una sorpresa, c’è il candidato che non ti aspetti, il nome che ti sorprende. Ecco, sarebbe bene che questa volta la sorpresa (che non è Juncker, che non è Schulz) sia l’antropomorfizzazione della Speranza, di quella “Spes ultima dea” a cui ancora non siamo disposti a rinunciare.