La stampa italiana è stata quasi unanime nel descrivere il Consiglio europeo conclusosi di recente come un successo per l’Italia e in particolare per il premier Renzi, che sarebbe riuscito a strappare ai suoi partner europei (ma soprattutto alla Merkel) un po’ di “flessibilità” nell’applicazione degli obblighi previsti dal Patto di stabilità e crescita. Più precisamente, è un invito a “fare il migliore uso della flessibilità già contenuta nel Patto” quello riportato nelle conclusioni del vertice Ue e nella cosiddetta “agenda strategica” di Van Rompuy. La stessa formula è stata ripresa in entrambi i documenti. Nella bozza precedente dell’agenda si parlava di “buon uso” della flessibilità già prevista dal Patto, mentre nella prima versione di “pieno uso”.
A prima vista (a prescindere dalle sottigliezze linguistiche) sembrerebbe effettivamente una vittoria per Renzi, che da tempo chiede di poter sfruttare i “margini” previsti in teoria dal Patto. “Abbiamo ottenuto quanto volevamo: ampi spazi di manovra”, ha dichiarato Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei a margine del vertice. Ma in cosa consiste esattamente questa “flessibilità” conquistata con tanta fatica? Il Patto di stabilità e crescita, stipulato e sottoscritto nel 1997, aveva l’obiettivo di rafforzare ulteriormente le regole di bilancio stabilite dal Trattato di Maastricht. Con esso, furono introdotte una serie di misure correttive (tra cui la famigerata Procedura per deficit eccessivo, Pde) per quei paesi che risultavano in violazione del famoso tetto del 3% di rapporto deficit/Pil e 60% di rapporto debito/Pil.
Negli anni che seguirono l’introduzione dell’euro, però, il Consiglio europeo non è mai riuscito ad applicare le sanzioni in esso previste contro i “grandi” dell’Ue. La stessa Germania tra il 2000 e il 2006 ha costantemente registrato un deficit superiore al 3%, senza incorrere in nessuna sanzione. Curiosamente, in seguito alla crisi finanziaria fu proprio la Merkel, insieme a Sarkozy, a proporre un allentamento dei parametri di Maastricht per permettere ai paesi dell’eurozona di perseguire le necessarie politiche anti-cicliche (come è stato poi fatto tra il 2008 e il 2010). “Il Patto è vitale… ma non al prezzo di mettere in pericolo la stabilità politica e sociale dei nostri paesi”, recitava l’appello lanciato dai due leader. Alla fine non fu introdotta nel Patto nessuna eccezione formale al limite del 3%, ma sia la Commissione che il Consiglio accettarono di chiudere un occhio nei confronti dell’inevitabile (in parte) esplosione dei deficit nazionali in seguito alla crisi (in buona parte determinata dai salvataggi delle banche). I “margini” ufficiali del Patto – a cui presumibilmente fa riferimento Renzi – rimasero dunque gli stessi di sempre: 3% di deficit e 60% di debito, entro i quali uno stato era più o meno libero di decidere le proprie politiche di bilancio in relativa autonomia.
Che la “flessibilità” ottenuta dal governo risieda nella possibilità, se non di sforare il limite di Maastricht (come hanno fatto in passato numerosi paesi europei, peraltro in contesti economici molto più favorevoli), almeno di sfruttare appieno il margine, non proprio ampio, del 3%? Se fosse così, si tratterebbe comunque di una bella boccata d’ossigeno per il paese: considerando che il deficit dell’Italia oggi è al 2.6%, mantenerlo costante o addirittura incrementarlo fino al 3% darebbe all’Italia un bel gruzzolo da utilizzare per stimolare la domanda interna, nel pieno rispetto del Trattato. Purtroppo non è così. E la ragione è semplice: con l’introduzione del Fiscal Compact – che obbliga gli stati membri a raggiungere entro il 2015 il pareggio o l’avanzo di bilancio, inteso in senso strutturale (quindi al netto del ciclo economico, in base ai parametri molto discutibili della Commissione) e a ridurre la quota del rapporto debito/Pil in eccesso al 60% al ritmo di un ventesimo l’anno – è stato eliminato anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita (il famoso 3% di rapporto deficit/Pil, appunto, che pur rimane come limite invalicabile), e su cui il premier dice di aver ottenuto maggiore “flessibilità”.
E infatti il Documento di Economia e Finanza 2015-2017, approvato qualche mese fa dal governo, prevede un aumento del nostro saldo primario (al netto dunque delle spese per interesse) – già il più alto di tutta l’eurozona – dal 2.2% di oggi al 3.3% nel 2015 e poi addirittura al 4.2% nel 2016, con l’obiettivo di centrare il pareggio di bilancio strutturale entro due anni (poiché l’Italia paga sul debito pubblico un interesse del 5% circa del Pil, per avere un bilancio in equilibrio deve ottenere un saldo primario più o meno equivalente). Va da sé che per fare questo il governo dovrà varare delle finanziarie “lacrime e sangue” per anni a venire. Alla luce di tutto ciò, a patto di non rimettere in discussione la normativa stessa – cosa che però il sottosegretario Gozi ha escluso categoricamente, dichiarando che nel corso del semestre l’Italia “non chiederà un cambio delle regole ma un cambio di priorità” (nonostante lo stesso Fondo monetario internazionale abbia suggerito di recente di abbandonare l’obiettivo del pareggio di bilancio e persino il tetto del 3%) – è ovvio che la flessibilità va ricercata nei margini del Fiscal Compact e non del Patto di stabilità e crescita, ormai superato. E infatti è quello che il governo ha fatto, scrivendo alla Commissione il 16 aprile per chiedere che il pareggio di bilancio potesse essere rimandato dal 2015 al 2016, arrivando comunque a un passo (-0.1%) già l’anno prossimo. Ottenendo a quanto pare il beneplacito della Commissione.
Peccato che proprio al Consiglio europeo di qualche giorno fa – quello della “flessibilità” – Matteo Renzi abbia messo la sua firma su un documento ufficiale che raccomanda all’Italia di fare l’esatto opposto di ciò che aveva chiesto: ossia di raggiungere il pareggio già l’anno prossimo e, se possibile, di assicurare il progresso verso il pareggio già dal 2014. È un fatto curioso, in quanto solitamente i governi negoziano “per diluire, non per inasprire, le proposte di raccomandazione ai paesi avanzate dalla Commissione europea”. Questa volta all’Italia è accaduto l’opposto. Non è un dettaglio da poco. Se l’Italia non dovesse ottenere neanche questa piccola caramella (e per come stanno andando le cose, sembra che non l’otterrà), la situazione in autunno si farebbe pesante per l’Italia: sarebbe necessaria una manovra di ulteriori tagli di circa 25 miliardi che andrebbe ad incidere ulteriormente sul livello dei consumi e probabilmente ridurrebbe verso lo zero la crescita economica nel 2014. E comunque, anche se il governo riuscisse ad ottenere un piccolo sconto quest’anno, la stangata arriverebbe (maggiorata) l’anno prossimo.
Alla luce di tutto ciò, anche con tutta la buona volontà, si fa fatica a capire quale sia l’“ampio margine di manovra” negoziato a Bruxelles dal governo. E infatti in un’intervista concessa lunedì al Financial Times il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schaüble, nega addirittura che sia mai arrivata una richiesta di flessibilità da parte dell’Italia: “In Europa non ho sentito questa richiesta né da parte del primo ministro italiano né da nessun altro”. Ora, è apprezzabile che il premier dica chiaramente che “o l’Europa cambia la propria direzione di marcia o non esiste la possibilità di sviluppo e crescita”: il cambiamento politico passa innanzitutto per un cambio di narrazione. Ma basta guardare la parabola politica di Hollande – anch’esso eletto solo due anni fa con una maggioranza parlamentare assoluta e sulla base di una piattaforma radicalmente anti-rigorista – per capire che in fatto di austerità e politiche europee gli elettori non perdonano le promesse non mantenute.
Non è detto che la storia si debba ripetere. Riteniamo che Renzi goda del capitale politico – in Italia e all’estero – per ottenere molto di più dai suoi partner europei. Ma deve osare di più, nella consapevolezza che “cambiare la direzione di marcia” – e salvare l’Europa – oggi vuol dire rimettere in discussione tutta l’architettura dell’unione monetaria. Noi, nel nostro piccolo, settimana dopo settimana, cercheremo di dare il nostro contributo.