Bruxelles – Parola d’ordine: “Ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Il G7 e gli Stati dell’UE che vi fanno parte sono decisi ad andare avanti con la strategia di isolamento e indebolimento economico della federazione russa, privandola degli introiti derivanti dall’uranio, dopo la cancellazione del business del carbone e del petrolio. Una decisione assunta in modo ufficiale, e dunque con chiare intenzione e volontà politica. Questa decisione, per quanto comprensibile e doverosa alla luce di un cambio di orientamenti derivati dalla guerra di aggressione in Ucraina, ha nella realtà un banco di prova non semplice e non scontato.
C’è mezza Unione europea alimentata con reattori e centrali nucleari. Tredici dei 27 Stati membri si affidano ad elettricità prodotta da fusione dell’atomo. La Germania ha annunciato di abbandonare la produzione e uscire definitivamente dal nucleare, ma nel breve periodo non sembra semplice per l’Unione europea tenere federe a proclami, intenzioni e impegni solenni. Serve uranio per alimentare le centrali e produrre energia dai reattori, risorsa di cui il sottosuolo del Vecchio continente è povera. Bisogna affidarsi all’offerta straniera, e oltre i confini dell’UE uno dei grandi produttori e fornitori è proprio la Russia.
La sola federazione russa risponde a un quinto del fabbisogno dei reattori a dodici stelle. Il 20 per cento delle forniture e degli approvvigionamenti della materia prima è garantito dal Paese oggi non più amico. Una quota di mercato che non appare difficile da rimpiazzare, considerando che nel mondo giacimenti non mancano e che i partner del G7 sono disposti a venire incontro alle esigenze dei partner occidentali. Ma nel grande gioco della alleanze, non va dimenticato come Russia, Kazakistan e Uzbekistan abbiano sempre marciato compatte e insieme. L’UE acquista uranio anche dalle altre due repubbliche dell’Asia centrale. Insieme, gli acquisti nei Paesi dell’ex Unione sovietica contano il 42 per cento di tutte le importazioni complessive.
Se questi tre Paesi dovessero davvero confermarsi uniti e compatti le politiche in materia di affrancamento dall’uranio potrebbero essere riscritte, proprio a est. Nelle logiche tipiche delle amicizie e del reciproco spalleggiamento di fronte a potenze straniere ostili o avvertiti come tali, Kazakistan e Uzbekistan potrebbero decidere di non venire incontro alle rinnovate esigenze europee per non fare torto al partner russo.
Va detto che né Kazakistan né Uzbekistan vedono di buon occhio l’aggressione dell’Ucraina, e non sembrano schierate con il presidente russo Putin in questa sua campagna militare. Quel che è certo è che l’annuncio del G7 mette in moto nuovi scenari geopolitici. I malumori in Asia centrale per le iniziative e le manovre del Cremlino potrebbero essere un’arma a favore degli europei, che devono fare attenzione a non indispettire ancora di più la Russia e i suoi centri di potere. Nella ridefinizione di confini, alleanze, sfere d’influenza, agli occhi di Putin l’UE e l’occidente si sono già spinti troppo oltre. Ma in questo rimescolamento di relazioni e fattori, la mossa dell’Occidente appare obbligata. Comprare uranio altrove appare una scelta obbligata, per un nuovo ordine mondiale.
Da chi andare a rifornirsi diventa il vero interrogativo. Gli Stati Uniti non hanno interesse a ché la Cina, principale concorrente sullo scacchiere internazionale, si arricchisca. Chiedere uranio ai cinesi, dunque non è via percorribile. Gli europei dovranno andare a pescare in Africa, dove pure presenza e penetrazione economica di Cina e Sudafrica non sono irrilevanti, o America Latina, sponda brasiliana. Oppure comprare dai partner del G7, a prezzo da stabilire, e scordandosi ogni velleità di indipendenza strategica.