Bruxelles – Speranza. Un anno fa era questo il sentimento dominante che accompagnava l’inizio della campagna di vaccinazione contro il COVID-19 in Europa, con la somministrazione delle prime quote simboliche del vaccino di “nuova generazione” a mRNA sviluppato da BioNTech-Pfizer. Era il 27 dicembre del 2020: a neanche un anno dalla scoperta del primo caso di coronavirus nel Continente, l’UE era pronta a somministrare il primo vaccino contro la COVID-19 sviluppato dalla partnership tedesco-statunitense a tempo record in meno di dodici mesi (generalmente si impiegano almeno dieci anni) e autorizzato dall’Agenzia europea dei medicinali (EMA) qualche giorno prima dell’inizio della campagna.
L’UE non arriva per prima a toccare il traguardo, Israele, Stati Uniti e Regno Unito spingono sull’acceleratore e a dicembre hanno già iniziato la loro corsa all’immunizzazione. A dirla tutta, l’UE al traguardo non ci arriva neanche “unita”, dal momento che più di uno Stato membro scelse di tagliarlo poche ore prima, senza aspettare gli altri e per conto proprio. Un approccio, quello all’assenza di coordinamento, che in parte caratterizzerà tutti i dodici mesi successivi di lotta al virus. Per Ursula von der Leyen rimaneva comunque “un toccante momento di unità, i vaccini ci porteranno fuori dalla pandemia”, diceva la presidente della Commissione Europea per descrivere quel sentimento diffuso di speranza con cui si cercava di lasciare alle spalle un anno difficile.
L’avvio lento e il “ritardo europeo”
Dopo le prime dosi simboliche di dicembre, i primi di gennaio è partita quella che passerà alla storia come la più grande campagna di vaccinazione di massa d’Europa (e del mondo), gratuita e su base volontaria, che la Commissione Europea ha cercato di coordinare come meglio ha potuto (viste le poche competenze in materia sanitaria) con una strategia sui vaccini che tenesse conto di tutti gli Stati membri. A inizio 2021, oltre al vaccino di Biontech-Pfizer è stato autorizzato anche il vaccino di Moderna, di AstraZeneca e di Johnson&Johnson: categoria dopo categoria, fascia d’età dopo fascia d’età, la vaccinazione anti-Covid è arrivata a disposizione di quanti interessati a farsi immunizzare e i numeri hanno iniziato a salire.
Il ritmo delle somministrazioni è cresciuto, tanto da riuscire vaccinare il 70 per cento della popolazione adulta europea (che conta in tutto 446 milioni di persone) entro la fine di agosto. Ma l’inizio della campagna è stato lento e nessuno dimentica che per tutto il primo trimestre 2021, il dibattito pubblico è stato dominato da critiche alla Commissione Europea sui ritardi dei Paesi UE sulla campagna di vaccinazione, che all’epoca sono costati vite. Si è parlato di presunta incompetenza di chi ha negoziato con i produttori di vaccini, di “tirchieria” dell’UE nel comprare le dosi e nel finanziare la ricerca dei vaccini, di lentezza burocratica e incapacità di mantenere ordine tra gli Stati. I ritardi che il più delle volte erano misurati in paragone al Regno Unito, come se la velocità di Londra nella campagna vaccinale fosse la conferma del fatto che ha fatto bene a liberarsi della pesantezza burocratica di Bruxelles.
In realtà, è dipeso da scelte molto diverse sulla campagna di vaccinazione, il premier Boris Johnson ha rischiato molto di più sui vaccini di quanto abbia fatto l’UE che di fatto non ha il potere politico per farlo. Mesi prima dell’avvio della campagna vaccinale, la Commissione UE ha messo in piedi una squadra di negoziatori europei con a capo l’italiana Sandra Gallina per trattare con le case farmaceutiche e concludere con queste accordi di acquisto anticipato delle dosi, soprattutto quelle con capacità produttiva in UE.
La strategia di Bruxelles, molto criticata a inizio del percorso, è stata quella di negoziare per un portafoglio più ampio possibile di vaccini, dovendo tenere conto della distribuzione tra 27 Stati membri: negoziare per 27 governi, oltre che essere più difficile, sul lungo periodo ha permesso di evitare concorrenza tra gli stessi Stati membri e che quelli più piccoli (e con meno peso politico per negoziare) rimanessero senza vaccini.
A giugno del 2020, quando l’UE inizia a trattare con le farmaceutiche, non è ancora chiaro quali sono i vaccini più promettenti contro gli effetti gravi della malattia del COVID-19 e per non sbagliare, l’UE sceglie di non scegliere e siglare accordi con quanti più vaccini credibili possibili nel caso in cui le cose dovessero andar male. Alla luce dei problemi avuti con AstraZeneca, su cui Bruxelles aveva molto puntato all’inizio, si è rivelata una intuizione giusta: con i tagli alle forniture nei primi mesi da parte della farmaceutica anglo-svedese, se non avesse avuto altri contratti sarebbe rimasta a corto di vaccini.
L’idea dell’acquisto congiunto sui vaccini – che un po’ ricalca l’idea del debito comune del Next Generation EU e che adesso l’UE ha adottato anche per le terapie anti COVID – oltre a essere la scelta più logica, un anno fa è stata innovativa perché ha cercato di invertire la tendenza ai nazionalismi ed egoismi che invece caratterizzarono i primi mesi di diffusione del coronavirus in Europa, tra assenza di dispositivi medici di protezione (mascherine, camici), catene di approvvigionamento spezzate dalle restrizioni ai confini e mercato unico a rischio. Oggi sembra scontato pensare che l’UE stia negoziando per tutti e 27 le terapie contro la COVID, mentre 12 mesi fa non lo sarebbe stato.
Precauzione e problemi con AstraZeneca
Che la campagna in UE sia iniziata lentamente e con diversi ostacoli è un dato certo. In parte, il processo di negoziazione sui vaccini è stato più cauto nell’UE rispetto a quello intrapreso ad esempio da Stati Uniti e Regno Unito, anche per mantenere i prezzi sui vaccini più bassi e complice la necessità di mettere d’accordo tutti e 27. Anche l’autorizzazione da parte dell’EMA dei primi vaccini in UE è stata più lenta rispetto ad altre agenzie regolatrici del farmaco, a causa delle modalità con cui vengono presentate le domande e i dati necessari alla richiesta, che di fatto hanno portato l’UE ad avviare la campagna circa due settimane dopo l’avvio delle vaccinazioni negli USA e tre settimane dopo il Regno Unito e nelle prime fasi a non avere abbastanza vaccini.
Il ritardo iniziale è cresciuto quando Pfizer-BioNTech ha annunciato una riduzione nelle prime forniture europee a causa di alcuni lavori allo stabilimento produttivo in Europa. A inizio 2021, di sei vaccini anti COVID che la Commissione aveva prenotato, c’era a disposizione solo Pfizer-Biontech, l’unico approvato per l’immissione in commercio, per un totale di 200 milioni di dosi già acquistate e ulteriori 100 da acquistare. Troppo poche per coprire la prima fase di vaccinazione in tutta Europa, dove a differenza di Stati Uniti e Regno Unito era commercializzato solo quello.
Poi sono arrivati tutti i problemi e i tagli sulle forniture del vaccino di AstraZeneca nel primo e secondo trimestre dell’anno, sfociate in accuse reciproche e in una azione legale dinanzi al Tribunale di Bruxelles, risolta solo a settembre. Ai problemi “logistici” con le dosi di AstraZeneca, si è diffusa eccessiva precauzione tra molti leader europei, compreso Mario Draghi, sulla sicurezza del vaccino anglo-svedese, portando alla sua sospensione dalle campagne nazionali e contribuendo a innescare dubbi anche nella popolazione sul vaccino e sulla risposta europea alla crisi sanitaria. L’esitazione al vaccino è emersa proprio con i problemi di AstraZeneca, ma è diventato ben presto chiaro che sarebbe stata una tendenza molto più radicata di quanto avremmo voluto, tanto da spingere i governi a discutere di obbligo vaccinale per ridurre il divario immunitario che oggi caratterizza l’Europa.
Vaccini anti COVID nel mondo
Una parte del presunto “ritardo” nella campagna vaccinale è certamente da ricondurre a scelte di campo dell’UE diverse rispetto a quelle fatte da altre potenze globali da cui ci si sarebbe aspettato un comportamento più eticamente solidale, tanto all’apice della pandemia ma anche in fasi più “rilassate” dei contagi. In un contesto pandemico come quello che viviamo da due anni, la corsa iniziale a garantirsi quante più dosi di vaccini possibile di alcune potenze più ricche ha fatto sì che molte altre rimanessero più indietro con le somministrazioni in assenza di dosi sufficienti. Sin dall’inizio della crisi sanitaria, l’Unione Europea ha giocato un ruolo chiave nella distribuzione dei vaccini anti COVID nel mondo, mantenendo libero l’export di dosi prodotte nella UE anche quando “in casa” propria c’erano difficoltà. Nessuna potenza ha fatto lo stesso.
Esemplare il caso di Israele, che alla fine di febbraio aveva oltre il 50 per cento dei suoi abitanti con almeno una dose del vaccino contro il coronavirus mentre l’UE non raggiungeva la soglia del 5 per cento ma buona parte delle dosi usate da Israele erano prodotte in UE che ha continuato ad esportarle nel mondo. Dodici mesi dopo l’inizio della campagna vaccinale, l’Unione è il più grande esportatore al mondo di dosi di vaccino anti COVID e i suoi Stati membri hanno condiviso più di 350 milioni di dosi in tutto il mondo, di cui la maggior parte – circa 300 milioni di dosi – condivisa tramite COVAX ai Paesi a basso e medio reddito. Ora Bruxelles si sta impegnando con Washington per 1,7 miliardi di dosi da distribuire entro metà del 2022, ma è giusto ricordare che fino a poco tempo fa era l’unica a condividerle.
Corsa ai booster e la quarta ondata COVID
Un anno fa il mondo entrava nella seconda ondata, oggi siamo alla quarta. L’avvio simbolico della vaccinazione in Europa compie un anno mentre la pandemia è tutt’altro che alle nostre spalle, come si augurava von der Leyen dodici mesi fa. L’UE è in piena quarta ondata, messa alla prova dalla variante Omicron che sarà dominante a inizio 2022, alle prese con la campagna di richiamo con le dosi booster e molti Stati membri stanno introducendo misure restrittive ai confini (come la richiesta di tamponi per l’ingresso) o restrizioni sociali per mantenere gestibile il numero dei contagi mettendo in “crisi” anche l’idea alla base del green pass europeo per i viaggi.
E’ senza dubbio diffuso il dubbio sull’utilità della campagna di vaccinazione se un anno dopo la sensazione è quella di dover ricominciare da zero. Qui l’errore. Oggi, come un anno fa, resta il virus da debellare ma l’UE è meglio preparata per farlo, con una strategia molto criticata ma che infine si è rivelata di successo: oggi è tra i Continenti con il più alto tasso di vaccinati al mondo, da poco è stato autorizzato il quinto vaccino e sono al vaglio dell’EMA sei trattamenti contro la malattia del Coronavirus, di cui poco si parla. In dodici mesi si è lavorato anche per aumentare la capacità di produzione in UE per la fornitura di vaccini, che portano l’Unione a produrre 300 milioni di dosi di vaccini al mese. Un anno fa, non c’erano dosi per vaccinare tutti mentre oggi sono sufficienti per i richiami e la distribuzione ad altri paesi per combattere la pandemia su scala globale. Un anno fa i governi accusavano la Commissione di patti segreti e si “sfilano” dagli appalti congiunti, mentre oggi Bruxelles negozia a nome loro le terapie contro la COVID. Resta il virus da debellare e una pandemia da superare, ma l’errore è credere che l’Unione di oggi sia la stessa UE di un anno fa.