Dall’inizio di luglio assistiamo a un aumento vertiginoso del prezzo del gas naturale (dai 28 euro a MWh della fine del giugno 2021 ai 115 euro a MWh al momento in cui sto scrivendo questo editoriale, pomeriggio del 5 ottobre). L’aumento del prezzo del gas naturale fa esplodere il prezzo dell’energia elettrica, che è ancora in larga parte prodotta con questa materia prima.
Quali sono le cause che spiegano questo vertiginoso aumento di prezzo, e che riflessioni fare su questa che possiamo tranquillamente definire come ‘la crisi del gas naturale’?
Diversi sono i fattori che hanno contribuito all’aumento del prezzo del gas naturale e dell’energia in generale negli ultimi mesi. Vi sono cause che potremmo definire transitorie e congiunturali, altre che invece appaiono più strutturali. Cerchiamo di analizzarle entrambe con ordine.
Certamente dopo un sensibile rallentamento delle attività economiche dovuto alla pandemia da coronavirus, la ripresa possente delle industrie e dei servizi in varie aree del mondo ha determinato un rapido aumento della domanda di materie prime e di energia. Tale crescita possente e rapida della domanda ha dovuto fare i conti con i ritardi dell’offerta principalmente imputabili al rallentamento delle produzioni e delle manutenzioni causato dalla pandemia.
In questo contesto soffrono molto di più i paesi e le aree del mondo che non dispongono di materie prime e di fonti di energia. Ciò accade per l’Europa e per l’Asia in generale, dove la fame più grande è quella cinese per le dimensioni di quella economia. Gli Stati Uniti d’America soffrono meno grazie alla produzione interna di gas e petrolio (soprattutto shale gas e shale oil, gas e petrolio estratti dalle rocce di scisto). Si pensi che in questo momento, rispetto al prezzo del gas in Europa che sta ballando tra i 115 e i 120 euro a MWh, il prezzo negli Usa è più basso di 95 euro!
L’Europa acquista l’80% del gas naturale di cui ha bisogno, circa 300 miliardi di metri cubi l’anno, dalla Russia e dall’Algeria; ma la Russia fa la parte del leone. Quindi l’Europa ha una tradizionale forte dipendenza dalla Russia che in questo periodo ha ridotto i flussi verso l’Europa a favore di quelli verso l’Asia. Non c’è solo questione di privilegiare il prezzo migliore: c’è anche molta geopolitica, ma su questo torneremo.
Inoltre problemi ai giacimenti del mare del Nord e il progressivo esaurimento di uno dei più importanti giacimenti di gas naturale in Europa, Groeninghen nei Paesi Bassi, stanno rendendo ancor più complicata la situazione.
Questo il sommario quadro delle cause che potremmo definire congiunturali all’interno delle quali spicca certamente la questione russa.
Fino a ieri la Russia è stata un affidabile fornitore di gas all’Europa, ma il ridotto livello delle forniture già dall’estate ha scatenato una serie di interrogativi sulle ragioni del comportamento russo, giustificato sempre ufficialmente non come una mancanza di volontà di fornire ma come causato soprattutto da problemi tecnico-produttivi imputabili alle conseguenze della pandemia. Inoltre Gazprom, il gigante russo del gas, sostiene che i prezzi del gas sono esplosi in Asia a causa del fatto che in molti paesi di quell’area si cerca di sostituire l’inquinante uso del carbone con quello molto meno inquinante del gas naturale. Fino a qualche settimana fa il governo cinese, avvicinandosi le olimpiadi invernali del febbraio 2022 che si svolgeranno in quel Paese, aveva ordinato lo spegnimento di molte centrali elettriche a carbone per ridurre l’inquinamento atmosferico, sostituendo quella produzione elettrica con quella di centrali turbogas.
Ma la tesi dei critici dei comportamenti russi sottolinea che l’ammontare complessivo delle forniture di gas russo verso l’Europa quest’anno è significativamente al di sotto del volume fornito pre-pandemia. In particolare Gazprom, pur rispettando le forniture legate ai contratti a lungo termine, ha ripetutamente disertato le aste relative allo spot market che normalmente danno al sistema liquidità e flessibilità. Il gas delle aste passa soprattutto per i gasdotti ucraini destinati ad essere sostituiti dal gasdotto North Stream 2 che collega direttamente Russia e Germania attraverso il Baltico. Il risultato della situazione è che gli stoccaggi di gas della Germania sono mezzi vuoti, il che espone quel Paese e l’intera Europa a una situazione che potrebbe diventare drammatica in caso di un inverno rigido.
A ben vedere il contrasto e probabilmente la spiegazione dei comportamenti russi sta proprio nella questione legata al North Stream 2, il gasdotto lungamente contestato dagli americani perché secondo loro produce troppa dipendenza europea dalla Russia. La proprietà di questo gasdotto, oltreché riferibile a molti operatori economici europei e in particolare tedeschi, è parzialmente nelle mani di Gazprom. Le regole europee, definite di unbundling, prevedono una netta separazione tra proprietà della produzione e proprietà della distribuzione, e si sono create tensioni per la richiesta formulata dai tedeschi a Gazprom di dismettere le loro quote di proprietà del North Stream 2, richiesta che Gazprom e la Russia non hanno alcuna intenzione di accettare.
L’uscita di scena di Angela Merkel, e il fatto che ci vorranno molti mesi per la formazione del nuovo governo tedesco, non facilitano di certo la situazione.
Oltre alle vicende congiunturali sopra elencate, a spiegare cosa sta succedendo al prezzo del gas vi sono anche alcune cause strutturali di lungo periodo che vanno attentamente analizzate.
La prima è certamente quella rappresentata dalla crescita economica e dal conseguente aumento di domanda interna di energia di molti Paesi produttori e esportatori nel bacino del Mediterraneo di gas naturale: Algeria ed Egitto prima di tutto. Tale crescita sempre di più si mangia una parte delle produzioni precedentemente destinate all’esportazione e di ciò si dovrà tener conto in futuro.
Altro elemento strutturale molto importante è rappresentato dalle politiche e dai comportamenti delle oil and gas companies. Queste aziende sono tutte impegnate in giganteschi processi di riconversione del loro business sempre più ‘criminalizzato’ dalle correnti ambientaliste, dalla maggioranza delle opinioni pubbliche e oggi anche dalle istituzioni finanziarie e dalle banche. Nell’atmosfera, spesso perfino estrema, del climate change e della decarbonizzazione l’investimento o è green o non è, nel senso che è proprio difficile reperire risorse finanziarie per sostenerlo. Le borse e le banche, che ben conoscono il momento di transizione di queste imprese, guardano con sospetto i bilanci delle oil company e si tranquillizzano solo se vedono cash flow positivi. Il combinato disposto di tutto ciò, pressioni ambientaliste e severità delle banche, fa sì che queste imprese non investano più in ricerca ed estrazione di petrolio e gas e ciò riduce sempre di più l’offerta disponibile.
Ciò a tutti gli effetti appare assurdo soprattutto per il gas naturale che è la vera risorsa energetica della transizione, che è molto meno inquinante del carbone, e per il quale esistono le
tecnologie che consentono di usarlo per produrre energia elettrica senza conseguenze climatiche. Tali tecnologie si chiamano CCSU, carbon capture storage and utilization; ma l’estremismo ambientalista, che vuole tutto domani mattina, senza peraltro spiegare quale sarà l’energia che farà funzionare nei prossimi venti anni ospedali e sale operatorie, industrie e servizi, centri di calcolo e l’enorme mole dei devices digitali, criminalizza pure queste tecnologie perché consentono ancora per un po’ l’utilizzo del gas naturale.
Infine un ultimo elemento che sta diventando strutturale è la progressiva finanziarizzazione anche del mercato del gas, con la comparsa anche qui di futures. A fronte di un metro cubo di gas fisico ormai ne esistono molti altri (quanti? non si sa) di carta. Inoltre anche sul gas ormai esistono i cosiddetti CFD (contract for difference), strumenti finanziari derivati il cui utilizzo non comporta lo scambio fisico bensì prevede il pagamento in contanti della variazione di valore della materia prima alla scadenza del contratto. Come per gli altri future e, in genere per i derivati finanziari, i trader possono usare la leva finanziaria per cui un deposito limitato messo in garanzia consente di sottoscrivere contratti per un valore multiplo. Ciò fa sì che operazioni speculative in derivati e futures raggiungono numeri altissimi e riescono a influenzare i mercati e a determinare i prezzi di una materia prima, in questo caso del gas naturale.
La cosa un po’ assurda è che oggi i primi cinque operatori che stanno speculando sul prezzo del gas in Europa, visto che nel loro Paese non ci sono opportunità di questo tipo, sono Fondi statunitensi.
Appare sempre più ineludibile l’approvazione di nuove regole sulle attività finanziarie e speculative. L’Europa deve difendere se stessa e non può sottrarsi a questa responsabilità, e anche l’Italia deve dire la sua al riguardo.
Il rischio è che in assenza di interventi politici nei confronti della Russia e regolatori nei confronti della speculazione internazionale quella che abbiamo definito la crisi del gas diventi una crisi sistemica capace di mettere in difficoltà non soltanto le famiglie e l’industria ma anche le banche e le istituzioni finanziarie europee.
*Antonio Gozzi è il presidente del gruppo Duferco, una holding internazionale che ha operato a lungo prevalentemente nel settore siderurgico ma che nel corso degli anni ha sviluppato business diversificati in diversi settori.
Questo intervento è stato originariamente pubblicato da piazzalevante.it.