Dopo un primo sondaggio ne è arrivato un altro, poi un altro ancora, poi ancora uno. In una decina di giorni, si è prospettata la svolta: i Grünen potrebbero riuscire a sorpassare la CDU-CSU alle elezioni del 26 settembre. Lo scarto a favore dei Verdi a volte è minimo, 25% contro 24%, mentre altre è più ampio, 28% contro 23%. Ci sono però anche sondaggi in cui la CDU-CSU resta in testa. Quello che è chiaro è che l’effetto Baerbock vs Laschet c’è stato. La domanda è se il nuovo trend reggerà per altri 4 mesi. Nel frattempo, però, c’è un altro potenziale sorpasso che non fa dormire sonni tranquilli agli strateghi cristiano-democratici. Si tratta del sorpasso geopolitico-transatlantico: i Verdi si stanno posizionando come il partito tedesco preferito da Washington. Per decenni la formazione atlantista per eccellenza è sempre stata una: la CDU. Ora le cose stanno cambiando. I motivi sono soprattutto due: Russia e Cina.
Washington likes die Grünen
I Verdi tedeschi non sono più anti-americani da un pezzo. Lo furono negli anni ‘80, quando nacquero dall’incontro tra un certo ambientalismo romantico e la declinazione ecologista di un post-marxismo tatticamente anti-Nato. Tuttavia, a ben guardare, già quando i Grünen si affermavano come ambientalisti pacifisti e anti-sistema, le loro posizioni erano pur sempre anche una declinazione euro-tedesca del ‘68 di Berkeley. Le posizioni anti-atlantiste sono state poi per sempre superate nel 1999, con l’appoggio dei Grünen all’operazione NATO contro la Serbia. E ora che il ‘68 di Berkeley è stato ampiamente istituzionalizzato dai Democrats USA, i Verdi tedeschi si affermano con il partito più in linea con i paradigmi e le prospettive liberal. Nessuno in Germania è infatti più liberal dei Verdi, come dimostrano la loro difesa militante della società aperta e le loro posizioni su multiculturalismo, uguaglianza di genere, diritti civili. Oggi, a 40 anni dalla nascita dei primi Verdi tedeschi, l’apprezzamento dei media liberal USA e dei think tank più classicamente atlantisti per l’ipotesi “Baerbock for Kanzlerin” dimostra come la vidimazione transatlantica dei Grünen sia ormai completa.
I media e osservatori USA che negli ultimi anni avevano elogiato sempre più apertamente Angela Merkel (nominandola Leader of the free world soprattutto in funzione anti-Trump) non sembrano adesso esageratamente entusiasti di Armin Laschet, l’erede partitico della Kanzlerin. Gli stessi media e osservatori hanno trovato invece in Annalena Baerbock una figura ben più interessante, capace di unire uno stile neo-manageriale al nuovo corso liberal-ambientalista. Questo non significa certamente che la CDU-CSU sia divenuta formalmente meno atlantista, ma significa che è arrivato un competitor politico che promette di esserlo in maniera più attuale.
A Pechino e Mosca non piacciono i Grünen
Le radici materiali del nuovo e potenziale asse transatlantico-green sono anche strategiche. Nel futuro prossimo, l’atlantismo dei vari partiti tedeschi non si potrà infatti più esprimere soltanto tramite la semplice amicizia verso gli USA, ma richiederà anche una certa inimicizia verso i competitor globali di Washington, a partire da Mosca e Pechino. E i Grünen sono oggi il partito tedesco più critico e intransigente verso Russia e Cina. Intransigenza che viene innanzitutto espressa nel campo dei diritti umani e che si interseca poi con la critica ambientalista.
Dove ampi settori della CDU-CSU o della SPD cercano di salvare da anni il Nord Stream 2, i Verdi si sono più volte dichiarati contrari all’opera, definendola una concessione al Cremlino e un’infrastruttura anti-ecologica. Dove la tattica di Merkel ha spinto nel dicembre 2020 il Comprehensive Agreement on Investment (CAI) tra UE e Cina, i Verdi hanno invece scelto un’opposizione che si è affermata proprio in questi giorni in sede europea.
Più ampiamente, l’asse transatlantico verde, di cui Baerbock ha parlato riferendosi a una transatlantische Allianz für Klimaneutralität, è elemento inevitabilmente geopolitico che si struttura anche sulla rimodulazione dei commerci globali in base a nuovi standard produttivi. Ovviamente, una rimodulazione del genere non è per niente semplice. Per tale motivo, i partiti da anni al potere in Germania come la CDU e la SPD sono invece molto più titubanti su un’accelerazione green che vada a toccare anche gli equilibri canonici dell’import-export tedesco. Ed è proprio in questo senso che la BDI, la Confindustria tedesca, ha recentemente criticato il programma dei Grünen, dichiarando: “Nella politica commerciale, le idee dei Verdi per gli accordi internazionali portano all’isolamento (…). I Verdi non riconoscono quanto il popolo tedesco ed europeo traggano beneficio dalle esportazioni, dai mercati aperti e da catene di approvvigionamento funzionanti”. Un passaggio che parla soprattutto di Cina, ormai primo partner commerciale della Germania per volume di interscambio complessivo. A questo genere di accuse Baerbock ha indirettamente risposto che “naturalmente come europei non possiamo chiuderci completamente alla Cina. È un mercato troppo grande per farlo”. Tuttavia, Baerbock ha più volte fatto intendere che il piano dei Verdi punti comunque allo sganciamento dalla dipendenza tedesca dall’export verso il mercato cinese e persegua un approccio ben più conflittuale di fronte alla penetrazione di Pechino nelle economie europee.
L’agenda dei Verdi per fare della Germania una neo-avanguardia del Green Deal europeo viene intanto già parzialmente condivisa dal cruciale mondo dell’automotive tedesco, al di là delle posizioni generali del BDI. L’impostazione geopolitica che un governo a maggioranza verde porterebbe a Berlino apre quindi un confronto che è solo all’inizio. Su un esecutivo di coalizione Schwarz-Grün (nero-verde) a maggioranza CDU-CSU c’era un accordo quasi ecumenico tra i poteri economico-finanziari tedeschi. La questione diventa invece più complessa se i Verdi diventassero il primo partito, in una coalizione Grün-Schwarz o frutto di altre composizioni.
Il glitch militare
Nello scenario fin qui descritto, va anche sottolineato quello che sembrerebbe invece il più grande ostacolo a un asse indissolubile tra Verdi tedeschi e Democrats americani: il dossier militare. I Grünen continuano a essere formalmente cauti su qualsiasi investimento militare, rimandano spesso i loro posizionamenti al multilateralismo delle organizzazioni internazionali, sono contrari all’obiettivo NATO del 2 per cento del Pil in spese per la difesa e parlano molto genericamente di una ridiscussione dell’Alleanza atlantica. In altre parole, sul dossier militare i Grünen restano meno canonicamente atlantisti rispetto ai settori CDU tradizionalmente più vicini a Washington (che rimangono tuttora strutturalmente decisivi nella politica estera tedesca). Al tempo stesso, questa cautela militare dei Verdi preoccupa oggi in realtà più le stanze della geo-strategia di Parigi che quelle statunitensi. È infatti l’hard-power politico francese a chiedersi se un governo tedesco a guida Grünen potrà innanzitutto rallentare i progetti di sviluppo della difesa comune europea.
Progetti su cui l’Eliseo punta da tempo, in nome del suo piano di autonomia strategica di affiancamento (con superamento?) dell’attuale geometria NATO. Pertanto, la confusa e ancora incerta definizione del dossier militare da parte dei Verdi, più che infastidire Washington, potrà essere piuttosto un potenziale glitch negli equilibri franco-tedeschi dell’Unione Europea. Un glitch capace di annunciare una deformazione di quella che fino a qualche anno fa era una sovrapposizione perfetta tra europeismo e atlantismo.
Questo approfondimento fa parte della collaborazione di Eunews con Derrick, newsletter settimanale che indaga la Germania in vista delle elezioni del Bundestag di settembre 2021.