A Castelfranco Emilia sembrano essere molto fieri perché pensano di aver risolto la questione del conflitto di genere mettendo alla fine delle parole la scevà, una lettera che in italiano non esiste, e così scansare il maschile generalizzato con quella che gli ideologi linguistici del Comune si azzardano a chiamare una desinenza neutra.
Operazione discutibile e linguisticamente pericolosa, anche perché il concetto di neutro quando si parla di lingue è perlomeno inappropriato. Come in politica non può esistere un partito neutro che ci rappresenta tutti, così nel variegato mondo delle lingue, ognuna appartiene a una cultura ben specifica e non può travestirsi da alfabeto Morse figlio di nessuno. Prima di essere uno strumento di comunicazione, ogni lingua è una visione del mondo e dell’uomo.
Ma soprattutto fa riflettere la sempre più diffusa pretesa di rimediare allo squilibrio fra i generi e ad altre grandi ingiustizie prendendosela con la lingua, affliggendola di asterischi, sbarre, vocali a scelta e altri obbrobri come se fosse lei la responsabile di tanta diseguaglianza.
È la stessa filosofia di chi crede di azzerare il colonialismo abbattendo le statue di Cristoforo Colombo o di sventare il razzismo imponendo l’uso di “nero” al posto di “negro” che viene dal latino “negrus” e ha l’innocenza dell’antichità. Il povero “negrus” paga qui lo scotto di assomigliare troppo all’americano “nigger” che, quello sì, è un termine dispregiativo. Ma con quale criterio si condanna una parola in una lingua quando la sua colpa è in un’altra?
E dove finirà la purga delle parole irrispettose del genere? Bisognerà allora con lo stesso slancio che si mostra per la tutela del femminile, salvare anche il maschile di parole come “giraffa”, rimediando con un “giraffo” alla qui negletta diversità di genere. Senza parlare di tutte le parole di origine greca come “fisiatra” o “psichiatra”, condannate a essere eternamente femminili, a meno che non siamo disposti a degenerare nella “psichiatressa” come ha fatto il “sacerdote” con la “sacerdotessa”. In italiano diciamo e scriviamo tranquillamente frasi del tipo “le pere e i meloni sono maturi” senza che le pere si offendano di essere messe al plurale maschile, in virtù di una convenzione che rende la lingua semplice e chiara. Perché dunque questa caccia alle streghe grammaticale? Forse perché è più semplice prendersela con la lingua che con i pregiudizi di un sistema sociale ed economico fondato sulla diseguaglianza.
La questione del genere andrebbe affrontata nella società, non nella lingua. Con misure di sostegno nel sistema educativo che incoraggino le donne ad intraprendere studi scientifici e con meccanismi che le tutelino nel loro ruolo di madri, con una giusta suddivisione dei compiti in ambito familiare, con investimenti nelle strutture per l’infanzia, con adeguamenti dell’orario e delle modalità di lavoro, con sistemi di congedo parentale equi. Quando la società nel suo insieme si sarà trasformata per dare alle donne le stesse opportunità degli uomini, un maschile plurale non farà più paura a nessuno e allora sarà la lingua stessa a trovare da sé i suoi modi per esprimere la nuova realtà scaturita dal cambiamento dei comportamenti. Ricordiamocelo, ogni lingua vive nel suo tempo e si sintonizza sulla realtà che la esprime. Tutti quelli che si sono accaniti a piegarla alla loro volontà, anche con le più nobili intenzioni, sono andati a sbattere contro un muro.