Bruxelles – Il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, lo ha ammesso in modo inequivocabile: “La consegna di vaccini anti-COVID ai Paesi dei Balcani occidentali si sta rivelando più difficile di quanto avessimo sperato“. Un rammarico espresso la scorsa settimana sia durante la plenaria del Parlamento UE, sia nel corso del confronto con il Comitato economico e sociale europeo (CESE) sulla strategia di integrazione della regione nell’Unione Europea.
Una magra consolazione c’è: “Sono molto lieto che il meccanismo COVAX, di cui l’Unione è tra i maggiori contributori, stia ora fornendo le prime dosi ai Balcani occidentali“, ha sottolineato con una punta di speranza il commissario. Il pericolo di tradire le speranze dei cittadini balcanici nell’avere accesso a una campagna vaccinale rapida e sicura è grande e il rischio di compromettere tutta la politica di allargamento UE nei Balcani Occidentali lo è altrettanto: i vaccini anti-COVID sono diventati un potente strumento in ottica geo-strategica, ma l’Europa sta mostrando difficoltà nel rimanere al passo della concorrenza, soprattutto russa.
A che punto siamo
COVAX, la struttura globale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per garantire un accesso equo e universale ai vaccini (sostenuta anche dall’UE con un miliardo di euro), dovrebbe fornire oltre 1,3 miliardi di dosi in tutto il mondo entro la fine del 2021 a Paesi a basso e medio reddito. Stando al documento di previsione della distribuzione provvisoria, per quanto riguarda i sei Paesi dei Balcani occidentali dovrebbero arrivare 952.200 dosi nei primi sei mesi di quest’anno (su una popolazione totale di oltre 18 milioni di abitanti): 84 mila al Montenegro, 100.800 al Kosovo, 103.200 alla Macedonia del Nord, 141.600 all’Albania, 177 mila alla Bosnia ed Erzegovina e 345.600 alla Serbia.
Le prime consegne erano attese tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo. Quando il calendario dice 31 marzo 2021, le dosi effettivamente ricevute sono 160.200, circa un sesto del totale per il primo semestre, ripartite tra Albania (38.400), Bosnia ed Erzegovina (49.800), Kosovo, Montenegro e Macedonia del Nord (rispettivamente 24 mila ciascuno). Il primo carico è arrivato a Tirana il 12 marzo, mentre tutte le altre capitali hanno visto atterrare gli aerei che trasportavano i sieri anti-COVID tra il 25 e il 28 marzo. Nessuna dose è ancora arrivata in Serbia, ma Belgrado ha già mostrato di seguire una strada diversa.
https://twitter.com/WHO_Europe/status/1375068681005367297?s=20
Il faro serbo
Dall’inizio della pandemia la Serbia ha seguito una politica estera fondata su quattro pilastri – Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Cina – implementandola proprio nel momento della campagna vaccinale di massa. Il presidente Aleksandar Vučić non si è limitato a chiedere dosi dal programma COVAX, ma si è anche attivato per siglare contratti con le singole case farmaceutiche e accordi con Russia e Cina.
Attualmente la Serbia mostra uno dei migliori tassi al mondo di dosi somministrate ogni 100 abitanti (34,15, mentre l’UE è ferma al 15,5). Su una popolazione totale nei Balcani Occidentali di poco meno di 7 milioni di abitanti, sono già state utilizzate 2 milioni di dosi singole di vaccini anti-COVID Pfizer-BioNTech, AstraZeneca, Sinopharm e Sputnik V.
La campagna vaccinale nel Paese sarebbe a uno stadio così avanzato che Belgrado ha considerato di potersi permettere anche l’avvio di una politica di relazioni esterne nella regione. Già a partire da metà febbraio sono iniziate le donazioni negli altri Paesi dei Balcani occidentali: oltre 8 mila dosi di vaccino Pfizer-BioNTech alla Macedonia del Nord (14 febbraio), 4 mila di Sputnik V al Montenegro (in due consegne, la prima il 17 febbraio), 10 mila di AstraZeneca alla Bosnia ed Erzegovina (2 marzo), che hanno seguito le 22 mila di Sputnik direttamente consegnate al governo dell’entità serbo-bosniaca (Republika Srpska).
Serbian President Aleksandar Vucic @predsednikrs arrived today in Sarajevo with the first part of donation of 10.000 AstraZeneca #vaccines to Bosnia and Herzegovina.
Serbia has also donated a total of 15.000 doses of vaccines to Montenegro, North Macedonia and Republika Srpska. pic.twitter.com/oOVDwVoCjt— Serbia in EU (@SRBinEU) March 2, 2021
Lo scorso fine settimana si è poi registrato un caso unico. A Novi Sad, Belgrado e Nis sono state somministrate gratuitamente dosi di vaccino anti-COVID, anche senza prenotazione, in centri allestiti per l’occasione. L’elemento di eccezionalità è che la campagna del 27-28 marzo è stata aperta agli abitanti di altri Paesi della regione, che sono potuti entrare in Serbia anche senza il risultato negativo di un tampone o il certificato medico per la somministrazione del siero. La premier Ana Brnabić ha spiegato ai media che altrimenti sarebbero andate distrutte tra le 20 mila e le 25 mila dosi in scadenza a inizio aprile, mentre il presidente Vučić in un’intervista al Financial Times ha sottolineato che “finché tutta la regione non sarà al sicuro, la stessa Serbia non lo sarà“.
Tuttavia, la decisione di estendere l’appello non solo agli imprenditori della regione (come inizialmente previsto, per favorire la ripresa delle relazioni commerciali) ma a qualsiasi cittadino straniero, ha tutte le caratteristiche di un’operazione di soft power, spalleggiata da Mosca e Pechino. Il Paese si sta ritagliando da tempo un ruolo-guida per l’intera regione e con una campagna vaccinale di successo si prospetta un aumento costante della sua influenza. Al punto da attrarre l’interesse delle due potenze orientali, in una strategia win-win per Serbia e Russia/Cina.
Belgrado ha annunciato che a partire dal 20 maggio sarà avviata la produzione locale del vaccino russo Sputnik V: “La prima fase prevede il trasporto di sieri dalla Russia, l’imballaggio e la distribuzione”, ha dichiarato lo scorso 11 marzo il ministro per l’Innovazione, Nenad Popović, dopo un incontro a Mosca con il ministro russo per il Commercio, Denis Manturov. Nell’aria c’è anche la pianificazione della produzione in loco del vaccino cinese Sinopharm a partire da metà ottobre, ma non ci sono ancora conferme ufficiali (la notizia è trapelata dopo un incontro a Dubai tra il presidente serbo e il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed Al Nahyan).
Per la Cina – e ancor prima per la Russia – assicurarsi la penetrazione con una catena di produzione nel miglior Paese balcanico (e tra i migliori europei) sul fronte della campagna vaccinale, può essere la chiave di volta per conquistare l’opinione pubblica dei Balcani Occidentali e vincere la battaglia dell’approvvigionamento di vaccini anti-COVID ai danni dell’Occidente.
Strategia di destabilizzazione
Nell’ottica europea, quella messa in atto in Serbia è una strategia di destabilizzazione del progetto di integrazione dei Balcani occidentali nell’UE. Il primo responsabile sarebbe proprio il Cremlino, che ha sempre visto in Belgrado l’interlocutore privilegiato e l’avamposto per la penetrazione economica e strategica nella regione.
Nel momento in cui il vaccino anti-COVID è diventato uno strumento di politica estera, non c’è da stupirsi se Mosca utilizzi Sputnik V quasi più per alimentare i propri progetti geopolitici che per vaccinare la popolazione russa (con una popolazione di circa 146 milioni di abitanti, il tasso di somministrazione di dosi per 100 abitanti è pari a 7,26, la metà dell’UE e un quinto degli Stati Uniti).
Questa strategia non è nuova e coinvolge direttamente anche i Paesi membri UE. Nonostante l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) non si sia ancora espressa sul siero russo (la valutazione è iniziata lo scorso 4 marzo), i Ventisette hanno già mostrato di non riuscire ad andare avanti compatti.
La prima testa a cadere è stata quella del premier slovacco, Igor Matovič, che si è dimesso ieri (martedì 30 marzo) a seguito delle polemiche scaturite dall’acquisto segreto di 200 mila dosi di Sputnik V. Il primo marzo Matovič aveva puntato tutto sull’autorizzazione per la somministrazione da parte dell’EMA, che avrebbe “accelerato del 40 per cento la campagna vaccinale”, si era sbilanciato l’ex-premier. Scommessa persa, dosi rimaste in magazzino e incarico passato all’ex-ministro delle Finanze, Eduard Heger.
Ma oltre al Paese del Gruppo di Visegrád, il siero russo sta trovando sempre più sostenitori nell’Unione. Dalla Germania, dove i Länder stanno spingendo il governo federale guidato da Angela Merkel a portare a Bruxelles la causa dello Sputnik V, all’Italia, dove non solo ha sede il primo produttore sul suolo comunitario (passo necessario per entrare, eventualmente, nel portafoglio della Commissione UE), ma in cui sono di stretta attualità alcuni scontri tra Regioni sulla questione.
“Mi auguro che il governo, anziché raccontare numeri a vanvera, si impegni affinché l’AIFA verifichi il vaccino Sputnik V in tempi rapidi, non nell’arco di mesi“, aveva provocato domenica scorsa (28 marzo) il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, dopo l’annuncio della firma di un “accordo congelato” con Mosca (in attesa dell’autorizzazione delle autorità sanitarie). Immediata la reazione di Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna (e compagno di partito nel PD): “Nessuna Regione italiana può acquistare i vaccini COVID per conto proprio, sicuramente non senza l’autorizzazione degli enti regolatori“. Con strascichi che erano arrivati anche nel Veneto a guida leghista: “Se la Campania acquisterà dosi di Sputnik V, vorrà dire che avevo ragione io”, ha chiosato il presidente Luca Zaia.