Di passaggio in Italia per qualche giorno, una domenica mattina ho incrociato per strada una gara podistica e mi sono fermato a guardare passare i corridori, ricordando con nostalgia le mie corse di gioventù.
C’era tutto, le maglie con i colori dei gruppi podistici, il pettorale spillato sulle schiene, il tifo dei parenti sui marciapiedi, i punti di ristoro con il tè caldo e l’immancabile striscione dell’UISP al traguardo. L’Unione Italiana Sport Popolare, credevo che fosse ancora. Ma leggendo bene ho scoperto che adesso la P significa “Per tutti”, non più popolare. Non so quando accadde il passaggio, ma è significativo. Popolare non va più, anzi sembra disturbare, come tutto quello che richiama il popolo, la gente. Forse perché fa troppo comunista. Ma abbiamo ancora paura del comunismo? Eppure quando alle nostre frontiere incombevano le sinistre democrazie popolari la parola non ci faceva paura, anzi avevamo il coraggio di dirla proprio in opposizione a quella che usavano le dittature comuniste rivendicando che da noi soltanto aveva il giusto significato. Forse allora popolare non ci piace perché da popolare a populista il passo è breve? Ma uno sport populista sarebbe sicuramente al passo coi tempi. Non vince il migliore, neanche il più drogato, non vince nessuno anzi si fa a pugni sul podio.
No, la verità è che nell’epoca della democrazia dal basso il popolo è diventato qualcosa di sinistro, non è più fatto di gente come noi ma è folla cieca, senza volontà, senz’anima. Una volta invocavamo le masse al potere ma le immaginavamo masse buone, di gente pecorona e tranquilla che volevano tutti la stessa cosa, poco importava quale. La massa era un concetto contadino o operaio, più alveare che organismo autonomo, ma saggiamente guidata da persone che volevano il suo bene, così credevamo e anche a noi faceva bene. Oggi la parola popolo evoca solo urla e linciaggi, non è più qualcosa di organico legato da una comunità d’intenti, ma un groviglio di individui esaltati dall’ossessione smisurata di apparire, di emergere, di non essere, appunto, popolo. Perché siamo tutti terribilmente uguali, tutti azzerati dalla finta democrazia della parità d’apparenza, dalla micro-rappresentatività, dalla viltà del conformismo, dalla dittatura del politicamente corretto, dal miraggio di libertà che ci dà il postare un insulto o il cliccare un “mi piace”.
Non siamo più popolo, siamo veneti, gay, etero, vegani, italiani pentiti, romani o i soliti terroni. Siamo tutti, come dice l’UISP. Una massa di tutti senza visione, senza volontà comune, senza più neppure la chiara percezione di quel che è il nostro bene.
Diego Marani