Di Michele Valente
La pandemia da Covid-19 ha sollevato da subito un dibattito sugli scenari del dopo emergenza. Tempi e modalità di gestione del cosiddetto “ritorno alla normalità” – si spera all’insegna di una maggiore sostenibilità economica e inclusione politico-sociale – procedono, tuttavia, su binari paralleli tra i Paesi dell’Unione europea, alimentando particolarismi nazionali e rivalità in diversi settori economici. Una compattezza politica del Consiglio europeo sul piano per la ripresa della Commissione europea sarebbe stata auspicabile già il 19 giugno, ma è probabile che l’unanimità da parte degli stati membri potrebbe arrivare solo a luglio, quando la presidenza di turno dell’Ue sarà tedesca.
Gli euro-strumenti per fronteggiare la crisi
Pochi giorni dopo la comunicazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (11 marzo), la Banca Centrale Europea (BCE) aveva annunciato, per voce della presidente Christine Lagarde, che “tempi straordinari richiedono misure straordinarie” (19 marzo). Con ulteriori dotazioni, Francoforte ha messo a punto il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) da affiancare all’ormai “ordinario” strumento del Quantitative easing (Qe). Si tratta di un massiccio programma di acquisto di titoli pubblici e privati da 1.350 miliardi esteso “fino alla fine di giugno 2021” – ha detto la presidente in conferenza stampa (4 giugno) – almeno finché la BCE “non giudicherà che la crisi del coronavirus è finita”. “Abbiamo usato e continueremo ad usare il PEPP per fronteggiare questi rischi di frammentazione”, ha aggiunto Lagarde, dando “un forte benvenuto alla proposta della Commissione europea di un piano per la ripresa per sostenere le regioni e i settori più colpiti dalla pandemia”. A fine maggio, Bruxelles ha annunciato un piano per far ripartire l’economia europea (Next Generation EU) incorporato nel Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 (Qfp): composto di risorse miste a fondo perduto (grants, pari a 500 miliardi) e prestiti (loans, 250 miliardi di euro), Next Generation EU sarà finanziato con l’emissione di titoli di debito comune da rimborsare entro il 2058. Il piano si sostanzia in tre pilastri con i relativi strumenti finanziari: il primo è il sostegno agli Stati, con il fondo più cospicuo da 560 miliardi (Recovery and resilience facility) per contrastare gli effetti economici della pandemia; gli altri due, con minori dotazioni, riguardano: il sostegno ai privati (Solvency Support Instrument) al fine di contribuire agli investimenti delle imprese, mentre un terzo sarà destinato al rafforzamento della sanità e della ricerca. Incontrando la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen e quello del Consiglio europeo Charles Michel, David Sassoli ha riferito che “la posizione del Parlamento è che il pacchetto si può migliorare ma attenzione a non tornare indietro. Il dialogo tra le istituzioni europee in questo momento è particolarmente importante per dare una risposta rapida ai cittadini”.
Scenari presenti e prospettive future
Il principale nodo da sciogliere, ha scritto il politologo Sergio Fabbrini su Il Sole 24 Ore (31 maggio), resta “la natura politica della frattura che è emersa tra i cosiddetti ‘paesi frugali’ (Austria, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia), sostenuti da diversi leader dei Paesi del nord, e i Paesi del sud d’Europa più colpiti dalla pandemia (Italia, Spagna e Francia)”, visto che “le future restituzioni accentuerebbero i vantaggi dei secondi sui primi.” La partita sociale ed economica richiede, nondimeno, lungimiranza e prontezza d’intervento. Sforzi e obiettivi ambiziosi delle istituzioni europee dovranno commisurarsi con la volontà politica degli stati di portare avanti un progetto condiviso, in linea con i princìpi del Pilastro europeo dei diritti sociali (2017) e in grado di promuovere politiche orientate alla sostenibilità economico-ambientale, la coesione territoriale e l’innovazione digitale. Unica risposta possibile ad una crisi che rischia di esacerbare disuguaglianze ed esclusione sociale.