Un romanzo di Miloš Crnjanski
“Ci sono libri che servono a svelare altri libri”, scrive Valerio Magrelli in una sua famosa poesia ed è proprio il caso di questo beve romanzo del grande scrittore serbo più noto al mondo per il suo ponderoso “Migrazioni” (ed. Adelphi), che racconta le vicissitudini di un popolo a noi così vicino eppure tanto poco conosciuto.
Il reduce Crnjanski è al tempo stesso un sopravvissuto e un precursore. “Dopo di noi arriverà un secolo migliore, esso arriva sempre” anticipa il soldato scaraventato dalla guerra mondiale prima sul fronte galiziano e poi su quello italiano. Con queste beffarde parole annuncia il secolo dell’olocausto e delle altre, infinite guerre che insanguineranno la sua terra, trascinata come i suoi popoli al di qua e al di là di frontiere sempre in movimento, perché le frontiere le portano gli uomini. Crnjanski nasce serbo in una provincia ungherese del Tibisco, nella multiculturalità creata appunto dalle invasioni e dalle migrazioni. Da queste terre passò Kara Mustafa per andare ad assediare Vienna, di li ritornò per essere poi giustiziato a Belgrado.
Di lì passarono i serbi fuggiti dall’impero ottomano per sottomettersi agli Asburgo, di lì altri serbi ancora fuggirono verso la Russia, di lì passarono i carrarmati dell’invasione nazista, di lì fuggirono i tedeschi della Vojvodina incalzati dal partigiani di Tito e poco più a sud croati e serbi si scannarono nelle guerre iugoslave. Per noi solo un incrocio di nomi esotici, eppure il Banato, la Sirmia, il Tibisco, la Posavina distano appena qualche ora di macchina dai nostri confini orientali e fanno pienamente parte dell’Europa storica, quella che ha nutrito il grande canone della cultura europea. Dimentichiamo spesso che diciassette imperatori romani sono nati nei Balcani.
Nelle sue peripezie di soldato Crnjanski racconta proprio questo, il fitto tessuto di affinità culturali, di vicinanza di pensiero che l’allora giovane nazione serba condivideva con i paesi di cui cercava di seguire il modello politico per costituirsi in stato, primo fra tutti l’Italia, appena unificata dopo secoli di frammentazione. In trincea il soldato Crnjanski legge Dante e Tibullo e non è un caso che una sua grande opera incompiuta si intitoli “Libro su Michelangelo”. Ma c’è anche Shakespeare, Flaubert e il belga Verhaeren fra le sue letture, tutta l’Europa che allora contava e che i popoli balcanici appena liberatisi dal giogo ottomano volevano imitare.
“Diario di un reduce”, pubblicato nel 1921, è un romanzo modernista, scritto in uno stile lirico e sognante, una concatenazione di visioni dove gli orrori della guerra si alternano ai miraggi dell’amore. Ma il tema forte del libro è proprio questo brulicare di popoli, questa esuberante diversità destinata a non fare altro che mescolarsi per crearne altra ancora, in fondo la condizione dell’Europa intera, e che l’autore descriverà magistralmente in “Migrazioni”.
Crnjanski appartiene a quel novero di scrittori balcanici che va da Ivo Andrič a Miroslav Krleža e che si salda con altri ancora alla tradizione letteraria centroeuropea di Kafka e Musil. È grande merito della casa editrice Ellint, assieme a poche altre, far conoscere al lettore italiano autori di un mosaico di paesi che troppo spesso restano per noi solo mute e strane forme sulla carta geografica, al massimo destinazioni balneari, e con cui invece condividiamo storie comuni e lunghe frequentazioni. È proprio da questa conoscenza che nasce lo spirito necessario a suscitare quell’anelito a una condivisione di destino che può fare la differenza fra un’Unione europea di puro interesse e un’unione di appartenenza, di condivisione, di conoscenza. Lo abbiamo visto con la pandemia, quel che vince le emergenze alla fine non è la forza economica, ma la fratellanza che si scatena cantando “Bella ciao” dai balconi.
Se ora il canto dei partigiani italiani dilaga fin fra i minareti di Smirne, vuol dire che di questo abbiamo bisogno, di condivisione, di vicinanza e sì, di quella mescolanza che ci ha sempre tenuti vivi e che ci fa propriamente europei.