Dopo la fine della seconda Guerra mondiale e sino al 1947, nella Germania occupata fu praticata una politica di occupazione dettata dalla “Direttiva JCS 1067”, a sua volta e in massima parte derivata dal cosiddetto Piano Morgenthau: in sostanza, l’opposto del Piano Marshall.
Il Segretario al Tesoro americano, Henry Morgenthau, aveva elaborato nel ‘44 un piano di materiale distruzione dell’industria tedesca e di sostanziale riduzione dell’economia della Germania (da dividere in due entità statali separate Nord e Sud con l’internazionalizzazione della Ruhr) ad un sistema a preponderante vocazione agricola e pastorale. Si trattava, in sostanza, di soffocare nazione, economia e popolo tedesco affinché non potesse più risorgere.
La visione antigermanica di Morgenthau e della Direttiva 1067 avevano già trovato opposizione all’interno del Gabinetto USA come su alcuni organi di stampa americani (New York Times e Wall Street Journal su tutti) ma il 1947 è, per definizione, anche l’anno in cui crolla definitivamente il rapporto tra gli Alleati e l’URSS di Stalin, dando inizio la Guerra Fredda; si modifica, quindi, il metro di valutazione in relazione al futuro della Germania: come ebbe a dire il generale americano Lucius Clay, comandante militare della Germania: “è meglio essere comunisti con millecinquecento calorie al giorno che democratici con mille”. Per evitare che il regime comunista fosse preferibile alla pax americana, diventava necessario dare una prospettiva di benessere al popolo tedesco.
L’abbandono delle politiche punitive e dei progetti di deindustrializzazione forzata della Germania post bellica a favore di iniziative di sostegno e sviluppo – compresa la graduale ripresa della produzione industriale – è, quindi, diretta conseguenza della necessità delle potenze occidentali di agire, in territorio tedesco come in tutta Europa, in funzione anti sovietica; un rafforzamento dell’economia Europea non poteva prescindere da una ripresa dell’economia tedesca.
Anche oggi, ci troviamo a dover valutare come alcune scelte economiche e politiche che si impongono all’Europa non solo stiano impattando bensì come impatteranno nel futuro non immediato sul futuro del Continente.
Nel treno dell’Europa comunitaria, la Germania – grazie anche all’inversione di rotta del ’47 – si trova oggi a fare da locomotiva, in parte assolvendo il ruolo che fu, settant’anni fa, degli USA. Nel dettare le politiche di bilancio e, quindi, di sviluppo dell’area Euro, l’EU soffre, a mio avviso, dell’assenza di un nemico che ne possa demarcare con chiarezza le esigenze sovraeconomiche. Quello, infatti, che molti lamentano e che i sovranisti usano come testa d’ariete nel tentativo di squassare le pietre angolari dell’edificio comunitario, è che le politiche economiche non sembrano riferirsi mai – o, almeno, non più – ad un modello superiore di Europa, di Società, di Vita; esse sembrano essere autoreferenziali e non finalizzate alla realizzazione di uno scopo il cui raggiungimento vale ben più delle regole stesse.
L’emergenza, improvvisa e stravolgente, del Coronavirus ha segnato con evidenza come l’EU si sia ridotta e rintanata all’interno dei manuali di economia, facendo ammalorare strutturalmente il pilastro umanistico su cui, invece, dovrebbe poggiarsi; il Mercato vale più dell’Uomo?
L’economia è un mezzo mentre il fine è un modello condiviso di vita dei popoli europei; la prima deve servire allo scopo, non essere lo scopo. Così, nel 1947, le politiche di occupazione e, poi, quelle economiche e sociali, si piegarono e, perfino, integralmente mutarono, in conseguenza delle necessità dettate da un chiaro obiettivo: mantenere la maggior parte possibile dell’Europa nella sfera sociopolitica occidentale, arginando l’espansione sovietica. Qual è, oggi, l’obiettivo? Neanche Ursula von der Leyen potrebbe dirlo, al di là di alcuni generici stilemi ormai davvero troppo logori: questa Unione sembra esserne priva.
Un obiettivo parziale o localistico potrebbe anche essere espresso dai singoli Paesi membri, a livello nazionale e subnazionale, ma, in realtà, quel disegno comune europeo di superiore livello manca a causa dell’assenza di un “nemico”, di un progetto altro, opposto, che neghi i fondamenti – non economici ma politici, sociali, valoriali – della nostra Europa. La globalizzazione ha fatto sì che anche l’ultimo gigante comunista superstite, la Cina, entrasse nel gioco del libero mercato, dopo che l’orso russo si era già comodamente rintanato, da anni, a Wall Street. Anche le istanze antioccidentali che vengono dal Medioriente paiono mitigate dal robusto collegamento economico che lega la produzione di greggio alle economie occidentali per cui, sotto il confortevole tessuto del politically correct, nemmeno in quel verso ci si può concedere di calare una nuova cortina di ferro. Cortina che, se non di ferro, almeno di principio, dovrebbe essere opposta anche ad alcuni ingressi o permanenze nel perimetro comunitario di Paesi la cui sincerità democratica pare essere non proprio cristallina.
Risultato ne è che l’Europa comunitaria decide per l’oggi ma non sa guardare al domani, pensa alla Borsa e non alla politica estera, controlla la produzione di mozzarella e non la tenuta della democrazia nei paesi membri o in quelli che chiedono di entrare, provocando, in questo modo, lo stato pre-agonico in cui versa l’Unione e in cui il virus del populismo sta scatenando una violenta insofferenza di cui la Brexit è il primo cadavere eccellente.
Eppure il nemico è proprio lì: nel nazionalismo, nel sovranismo, nell’antipolitica, nel “prima gli…” ovvero nel noi e loro; la conseguenza – se si assumesse, come nel ’47, la priorità di combattere il nemico del nostro modello di civiltà – sarebbe quella di piegare gli indirizzi economici quale mero strumento per la realizzazione di un modello condiviso di welfare, di stabilità del mercato del lavoro con un’altra conciliazione vita/lavoro; un modello di politica estera comune, di sicurezza condivisa; un progetto di istruzione che rimetta al centro l’uomo, la formazione umanistica, le capacità di elaborazione delle idee, la conoscenza che va oltre la tecnica.
Forse, l’errore è che si è creduto, con l’introduzione dell’euro e l’allargamento dell’Unione, di aver messo in sicurezza anche i principi valoriali dell’idea Europa: la realtà di questi ultimi ani e di questi ultimi mesi di gravissima crisi sanitaria, ci stanno, invece, denunciando, che l’impoverimento sociale del Continente si è avviato e, con esso, stanno rifiorendo quei nazionalismi, quegli odi e quelle separazioni che possono contenere nuovamente il germe del conflitto. L’atteggiamento dei falchi economici, infatti, sembra ricalcare quell’eccesso di vittoria che dettò il Piano Morgenthau nel 1944 e che, come imposero i vincitori a Versailles, avrebbe provocato, dopo venti anni, un nuovo conflitto mondiale.
Questa Europa, dopo cinquant’anni di vita e venti di moneta unica, ancora non riesce a guardare a sé stessa come ad un unico Paese. Per questo, prima ancora che bilanci, spread, moneta, si dovrebbe tornare a costruire l’Unione delle persone.
Abbiamo un’Europa da rifondare, abbiamo un nemico da combattere, abbiamo una rotta da invertire. Non dobbiamo affidarci alle speranze: dobbiamo solo volerlo, con un po’ di coraggio. Dateci un’Europa in cui credere.