Nei “Quaderni dal carcere” Antonio Gramsci riporta queste parole che Francesco De Sanctis scriveva alla fine dell’Ottocento riferendosi alla società italiana: “Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura”. E così le commenta: “Ma cosa significa ‘cultura’ in questo caso? Significa indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale concezione della vita e dell’uomo, una religione laica, una filosofia che sia diventata appunto cultura, cioè che ha generato un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale”.
Ottantatré anni dopo la morte di Gramsci e centotrentasette dopo la morte di De Sanctis, questa osservazione è ancora pertinente e rivela quanto la società italiana sia incompiuta. Nella sua analisi, Gramsci continua lamentando in Italia la mancanza dell’unificazione della “classe colta”, un concetto che oggi può sembrare superato ma che invece resta centrale nella costruzione di una società.
La classe colta non è, non deve essere un’impenetrabile casta di privilegiati che come nel Regno Unito fornisce il serbatoio per la classe dirigente ma un gruppo di persone di ogni credo politico, depositario di quella filosofia che ha generato appunto l’etica e il modo di vivere nazionali e che li alimenta, li coltiva, li mantiene vitali perché sa guardare oltre il presente, nella storia della nazione e nella sua proiezione verso il futuro. Al di là delle appartenenze politiche, perché nessuna appartenenza politica è più possibile se viene a mancare la società in cui esse si esplicitano.
Una classe che non è definita dal censo ma appunto dalla cultura e che può esistere solo quando una nazione ha fatto la scelta della propria cultura, ha definito il proprio canone e lo rispetta, lo considera depositario del suo carattere fondamentale. Dal rispetto e dalla conoscenza della cultura che definisce il carattere di una nazione proviene ogni altro livello di lealtà e di appartenenza, il rispetto di ogni autorità che è in fin dei conti rispetto di sé, dei valori che ci si è dati e che si vuole trasmettere alle nuove generazioni.
In Italia invece disperdiamo la nostra cultura nazionale, non insegniamo più la storia dell’arte nei licei, dimentichiamo il latino per non parlare della letteratura, ormai una materia obsoleta. E pretendiamo di sostituire materie che nutrono l’anima, che costruiscono l’uomo, con materie come l’informatica che sono solo strumenti tecnici. Peggio, i movimenti populisti hanno suscitato nella società un disprezzo per l’uomo di cultura, considerato oggi un affabulatore dai nuovi politicanti che si vantano della loro ignoranza come di una prova di purezza e innocenza di pensiero.
Da qui proviene il revisionismo storico di chi nega i campi di sterminio e crede invece nelle scie chimiche, l’abominio di quei genitori che minacciano i professori per i cattivi voti dei loro figli, l’inconsistenza di quel ministro dell’istruzione che impunemente predicava che studiare storia fa male perché incita alla violenza.
Un amico professore di storia al liceo mi rivelava di aver interrogato un suo alunno chiedendogli di parlare dell’8 settembre. “Di che anno, professore?” Si è sentito chiedere. E non era una battuta.