Cara Deborah,
ci siamo conosciuti quarantadue anni fa in un villaggio turistico sulla costa orientale dell’Inghilterra. Tu facevi l’animatrice, io il lavapiatti. Ero venuto nel tuo paese per imparare l’inglese ma ancora lo sapevo poco e allora io e te parlavamo nel francese che tu avevi imparato facendo la baby-sitter a Parigi.
Ci raccontavamo i nostri paesi, così diversi, così lontani, ma allora da poco riuniti nella fratellanza della Comunità europea. Tu venivi dal nord, dalla città di Sheffield, un nome che avevo letto su qualche coltello. Mi dicevi che era nera di fumo e di fabbriche e che ne eri fuggita per andare a studiare a Londra. Io ti raccontavo la mia vile campagna e tu facevi una meraviglia dei suoi campi di granoturco, delle sue file di frutteti, del mare dove andavo a fare il bagno, perché era lo stesso che bagnava Venezia.
Durante la guerra, il Butlin’s Holiday Centre di Clacton-on-Sea dove ci siamo conosciuti era stato un campo di prigionia. Vi erano internati molti italiani e la gente del paese se ne ricordava ancora. “Welcome back!” mi disse per scherzo il mio capo quando mi accolse, con un poco di quell’arroganza che gli inglesi devono sempre mostrare per poi subito compensare con un’estrema cortesia. Tutto lì per me era una meraviglia, il tè con il latte, le macchine che giravano a sinistra, le pinte di birra, la musica nei pub, le cabine telefoniche da cui si poteva telefonare dritto nel mio paesino solo componendo gratis il numero 100, i poliziotti gentili che venivano a chiederti loro se avevi bisogno di aiuto mentre da noi facevano solo multe. Perfino la vostra cucina senza gusto mi incuriosiva. Doveva pur esserci del buono in quei piselli bolliti, in quella Brown Sauce dolciastra, in quell’estratto per brodo che spalmavate sul pane.
E tu sgranavi gli occhi incredula quando ti raccontavo che da noi i tortellini si facevano in casa, mi chiedevi se il mio giubbino l’avesse confezionato un sarto, l’avevo comperato alla Coin, ti immaginavi un’Italia dove tutti erano artisti e i quadri del Rinascimento ce li dipingevamo da noi il sabato pomeriggio. Quando poi venisti a trovarmi nel mio appartamento di studente, e mi scusai se quel giorno per pranzo potevo solo prepararti una pasta con il pomodoro perché c’era il frigo vuoto, mi chiedesti se non fosse un cibo troppo “violento” per te. Quell’aggettivo mi colpì. Mai avevo pensato alla violenza che può scaturire da un sugo al pomodoro per chi di pomodoro non ne ha mai vista una pianta. Conoscerci fu una scoperta, un lento addomesticamento, era difficile spiegarci e non solo per la lingua.
Durante l’anno ci scrivevamo, lunghe lettere che per me erano un esercizio. Ed era un brivido andare a chiedere al tabaccaio un francobollo per l’Inghilterra. Doveva scartabellare il suo prontuario per trovare la tariffa giusta. Con te imparai la religione tutta inglese del biglietto di auguri natalizio. Oggi forse siamo rimasti solo io e te a mandarcelo. D’estate, quando ritornavo in Inghilterra per perfezionare il mio inglese, ci rivedevamo e ci raccontavamo. Ci prendevamo in giro a vicenda, io la tua Lady Di e il suo matrimonio fiabesco, tu i nostri piagnistei per una partita di calcio. Assieme a noi i nostri paesi si conoscevano sempre più, si legavano in uno stesso destino.
Poi arrivò la vita adulta e nel suo turbine i miei figli vennero a studiare in Inghilterra, mia figlia addirittura nella tua Sheffield. Quando le nostre due famiglie si incontrarono mi accorsi che non avremmo mai potuto spiegare ai nostri figli il nostro incontro. Ma loro ne erano il risultato: ragazzi con un comune destino che si capivano in diverse lingue. Incredibile che in tutto questo tempo il mio inglese sia migliorato così poco. Faccio ancora fatica a capire il tuo accento del nord.
Inspiegabilmente, oggi la storia ha buttato al vento tutto quello che io e te abbiamo costruito con i nostri quarantadue anni di amicizia. L’Europa che abbiamo conosciuto io e te finisce qui. I nostri paesi si allontanano, dietro di loro nuove frontiere si chiudono e anche se non sembra, il villaggio turistico di Clacton-on-Sea ridiventa un poco un campo di prigionia.