La minaccia lanciata da Trump agli ayatollah di colpire siti del patrimonio culturale iraniano in una sorta di rappresaglia preventiva contro un eventuale vendetta iraniana per l’uccisione del generale Qasem Soleimani segna una svolta mai vista nelle modalità di conduzione di una guerra. Per la prima volta un paese minaccia apertamente di distruggere il patrimonio culturale di un suo nemico e il paese in questione non è un oscuro regime totalitario ma i democratici e liberali Stati Uniti d’America.
Va detto innanzitutto che la distruzione di siti culturali è un crimine di guerra secondo la Risoluzione 2347 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e la Convenzione di Ginevra del 1949. Ma la pratica di attaccare siti culturali si è ormai consolidata nel tempo, fin dalla distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani e ancor prima, nelle guerre iugoslave, dove siti culturali e identitari come la biblioteca di Sarajevo divennero obiettivi militari.
Gli Stati Uniti stessi l’11 settembre 2001, subirono un attacco che non fu solo una strage di civili ma che colpì un potente simbolo della cultura e del modo di vivere statunitense. Ma oggi l’aperta minaccia di Trump fa della distruzione identitaria una vera e propria arma di guerra. Un passo molto significativo, perché porta alla ribalta un’evidenza: nelle guerre moderne sempre più spesso la posta in gioco non è più l’annientamento militare, la conquista, l’occupazione e l’annessione di un territorio, come nel caso atipico della Crimea, ma l’annientamento identitario del nemico, la distruzione dei suoi simboli culturali, di quel patrimonio che lo rende comunità di persone, che esprime la sua tradizione e la sua storia e che fornisce il collante che tiene insieme una società. Abbiamo un bel lamentarci che la globalizzazione cancella come un rullo compressore le diversità e che l’omogeneità economica appiattisce anche la sfera sociale, ma qui abbiamo la prova che chi vuole colpire duro oggi mira proprio a quel che fa la differenza, a quel che sembrava banalizzato e relegato a puro spettacolo: la cultura.
Proseguendo nella riflessione, bisognerebbe ora approfondire ed immaginare quali bersagli Trump ha nella sua lista. Perché il patrimonio culturale iraniano non è tutto uguale. L’attuale Repubblica islamica iraniana di credo sciita è l’erede di civiltà millenarie come l’antica Persia degli imperi achemenidi e sassanidi, dove convivevano religioni diverse, dalla zoroastriana alla nestoriana ma anche la cristiana e la giudaica, per citarne solo alcune e di cui rimangono importanti testimonianze sul suolo iraniano.
L’Islam arrivò in Iran attorno al 650 D.C. Colpire il mausoleo di Ruhollah Khomeini, le moschee di Isfahan, il palazzo del Golestan, dove venivano incoronati i Pahlavi, i monasteri armeni o le rovine di Persepoli, capitale dell’imperatore Dario I, non sarà la stessa cosa. E non avrà lo stesso effetto.
A prescindere dal danno materiale, prendere di mira siti khomeinisti sarà un atto di guerra ancor più ferale, perché sarà l’identità stessa della repubblica islamica ad essere minacciata. Ma al tempo stesso sarà un chiaro messaggio politico, l’identificazione del vero nemico. Se un simile attacco dovesse mai accadere, è difficile prevederne gli effetti. Per quegli iraniani che si oppongono agli ayatollah questo sarà forse un incentivo a resistere e a vedere nell’America trumpiana un alleato. Ma per la maggioranza manipolata e succube della propaganda sarà benzina sul fuoco e susciterà un attaccamento ancor più virale a un regime che dura ormai da quarant’anni e che si è sempre mantenuto forte con lo spauracchio della minaccia esterna.