Bruxelles – Giornalisti ossequiosi, domande preparate, tempi di risposta limitatissimi, nessun contraddittorio, domande dei cittadini sollecitate ma poi ignorate. Tutto quello che non dovrebbe esistere in un dibattito tra politici c’è stato questa sera nel Grande Dibattito tra i candidati alla presidenza della Commissione europea, organizzato nella sede del Parlamento UE a Bruxelles e trasmesso da qualche decina di televisioni del Continente.
Lasciamo perdere, poi, il fatto che molto probabilmente nessuno dei sei presenti sarà davvero il prossimo capo dell’esecutivo europeo.
Un dibattito in stile “Eurovision”, grande scenografia, claque (in particolare quella organizzata dai liberali), giornalisti che ammiccano al pubblico ma che non possono controbattere ai candidati, neanche per dire che la domanda fatta era un’altra e che la risposta era fuori tema. Insomma, tempo, nella migliore delle ipotesi, perso, o addirittura dannoso per l’Unione europea.
Nessun candidato ha parlato nella sua lingua, tutto si sono uniformati all’inglese (o in qualche momento al francese). Tanto per far sentire i cittadini lontani, per obbligarli ad avere una traduzione, a non poter condividere quelle emozioni che passano dal sentir dire le cose nella propria lingua (per coloro che la condividono con i candidati, che vengono da Paesi diversi: Germania, Spagna, Olanda, Repubblica ceca, Spagna). Ma anche per chi ascolta, la sensazione non è stata di “Uniti nella diversità”, come recita il motto dell’UE, ma di “Omologati”.
Il format non ha permesso di capire cosa pensano davvero i candidati. Un minuto a risposta è poco, impone la genericità. E i giornalisti che hanno condotto erano poco più che burocrati, nel senso cattivo della parola: hanno posto le domande programmate, ma non sono mai intervenuti sulle risposte, non hanno mai incalzato i candidati a chiarire, a risolvere contraddizioni. Dunque a una domanda su Usa e Cina, ad esempio, i candidati hanno risposto a piacere, chi parlando di Russia, chi parlando degli arbitrati internazionali. E i conduttori (di tram più che di un dibattito) hanno commentato con un “grazie”. Un ringraziamento che è stato pronunciato spesso da parte dei giornalisti verso i candidati, come se offrire uno spazio di approfondimento (teorico) fosse un favore che concede chi chiede il voto dei cittadini, e non un dovere e anche un’occasione di propaganda elettorale.
Nell’era dei social, poi, non poteva non aprirsi un canale di comunicazione con i cittadini. “Scrivete le vostre domande ai candidati”, è stato sollecitato all’inizio della trasmissione da una giornalista che coordinava uno staff di quattro o cinque persone. Bene, a parte il disastroso risultato di circa 7.000 tweet annunciati dopo una mezzora di dibattito (cifra umiliante, se si pensa che i cittadini dell’Unione sono oltre 500 milioni) il vero segno della distanza del dibattito dai cittadini è stato che un paio di domande giunte sui social sono state mostrate e lette, ma non è stato chiesto ai candidati di rispondere, si è passati alla successiva domanda già preparata.
Se il segnale voleva essere di un avvicinamento ai cittadini, il risultato è stato un disastro: il dibattito è andato avanti nella sua “bolla”, i cittadini li si fa parlare (poco) e in fondo li si ignora.