Bruxelles – Dopo un nuovo incontro con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, oggi in Egitto ha visto Jean-Claude Juncker, nel tentativo di strappare concessioni sull’accordo Brexit impone di avere nuovo tempo: “Il risultato è che non porteremo il voto in Parlamento questa settimana. Ma assicuro che lo faremo entro il 12 di marzo”. Theresa May ieri ha annunciato un rinvio del nuovo voto della Camera dei Comuni sull’accordo di separazione dall’Unione europea, portando la data a ridosso di quel 29 marzo in cui è previsto il definitivo abbandono dell’UE. A meno che, come suggeriscono Tusk e Juncker, non ci si prenda qualche tempo supplementare.
La premier vuol spingere le cose all’estremo, nella speranza che tra i deputati si crei una maggioranza che approvi l’accordo già bocciato a gennaio perché diventerà l’unica via per evitare il temuto no deal. La giustificazione è che sta trattando con Bruxelles (in settimana è previsto anche un incontro tra i due team di negoziatori), ma non è chiaro su cosa, visto che tutti gli esponenti dell’Unione ripetono da tempo che l’accordo non si tocca. L’unico spazio che resta è la dichiarazione politica allegata all’accordo, con la quale si delineano le relazioni tra UE e UK per il futuro, dopo la fine della fase transitoria (che ci sarà solo se l’accordo di separazione verrà approvato). Il tentativo di May è di fare in modo che anche questo documento abbia un valore legalmente vincolante come l’avrebbe l’accordo. I leader europei non sono contrari, hanno più volte affermato che la dichiarazione politica può contenere qualche specificazione in più sul tema del backstop per il confine irlandese, come ha fatto anche una lettera del 14 gennaio scorso firmata da Tusk e da Juncker. Se non la dichiarazione politica, il valore legalmente vincolante, ritiene May, potrebbe averlo questo testo nel quale è scritto che “qualora si dovesse comunque ricorrere alla soluzione ‘di salvaguardia’, questa si applicherebbe unicamente in via temporanea, salvo e fintanto che non sia sostituita da un accordo successivo che garantisca che la frontiera fisica sia evitata e che, in tale eventualità, l’Unione europea si adopererebbe al massimo – e lo stesso si aspetterebbe dal Regno Unito – per negoziare e concludere tempestivamente un accordo successivo che sostituisca la soluzione ‘di salvaguardia’, cui si ricorrerebbe pertanto solo per il tempo strettamente necessario”. Sempre che ciò basti ai deputati più riottosi.
Intanto si accavallano ipotesi su rinvii della scadenza del 29 marzo, che però May ha sempre negato (l’ultima volta oggi) di voler chiedere. “Un’estensione all’articolo 50, un ritardo in questo processo, non porta a una decisione in Parlamento, non porta a un accordo”, ha detto a Sharm el-Sheikh dopo il vertice UE-Lega Araba. “Tutto quel che fa è esattamente ciò che dice la parola: rinvia. Qualsiasi estensione dell’articolo 50 non affronta i problemi”, ha aggiunto.
Sarebbero i 27 a doverlo concedere, su richiesta di Londra, ma a Bruxelles si è sempre spiegato che ci vorrebbe una ragione significativa per farlo, benché oggi Tusk abbia sostenuto che è “l’unica cosa razionale da fare”, visto che secondo lui il Parlamento britannico non approverà l’accordo sul tavolo e che lo scenario di un no deal va evitato.
Se l’accordo passasse in Parlamento a Londra dovrebbe poi essere approvato anche dal parlamento europeo, a tambur battente. I contenuti sono arcinoti e condivisi dalla stragrande maggioranza degli eurodeputati, il problema non sarebbe dunque il dibattito, ma comunque qualche emergenza nel calendario dei lavori si porrebbe. In questo caso forse un prolungamento dei termini di qualche settimana potrebbe essere deciso, anche per permettere a Londra e agli Stati del’UE, in particolare i ritardatari come l’Italia, di definire gli ultimi dettagli per rendere operativa l’entrata in vigore dell’accordo.
Certo da tutte e due le coste della Manica si vorrebbe evitare un prolungamento di qualche mese che costringerebbe il Regno unito a svolgere elezioni europee, mandando a Strasburgo deputati la cui posizione sarebbe poco chiara, anche perché ancora non c’è stato un pronunciamento chiaro da parte del Parlamento su cosa ne sarebbe di loro se fossero eletti e dopo qualche tempo il loro Paese lasciasse l’Unione europea. Per non dire dei problemi causati negli Stati dal dover sospendere le nuove leggi elettorali conseguenti all’aumento dei deputati che alcuni di loro hanno avuto, come l’Italia (che però non ha ancora preso alcun provvedimento in merito).
Nuove elezioni in Gran Bretagna sarebbero poi di fatto anche una sorta di secondo referendum sulla Brexit e un giudizio sul governo e ovviamente sui partiti, cosa che May certo non gradirebbe, e probabilmente neanche il pericolante leader laburista Jeremy Corbin.